Parigi 2024, Benedetta Pilato e gli altri: la cultura della sconfitta di cui abbiamo bisogno
A Parigi 2024 Benedetta Pilato e la gioia per un quarto posto. La necessità di una sana cultura della sconfitta. "Open" di Andrè Agassi
A Parigi 2024 Benedetta Pilato e la gioia per un quarto posto. La necessità di una sana cultura della sconfitta. "Open" di Andrè Agassi
Tra le mille polemiche che hanno segnato sin dalle prime ore le Olimpiadi di Parigi 2024, scegliamo di parlare oggi di quella incentrata sul magnifico sorriso di Benedetta Pilato che, a 19 anni, ha visto sfumare il bronzo olimpico per un centesimo di secondo e, nonostante questo, a fine gara, a bordo vasca, ha dichiarato:
“E’ il giorno più bello della mia vita”
con una luce negli occhi del tutto giustificata, per una ragazza che non ha nemmeno 20 anni e ha già frantumato record e primati. Stiamo infatti parlando della nuotatrice italiana più giovane della storia a qualificarsi ai Mondiali: lo ha fatto a soli 14 anni, battendo in questo anche la Divina Federica Pellegrini. Una ragazza che ha un grande futuro davanti tutti i motivi per sorridere nonostante il podio sfumato per un soffio. Se non fosse che in una società tossica, la mancata medaglia viene considerata un fallimento. Lo ha fatto ben capire, la reazione di Elisa Di Francisca, ex olimpionica di scherma, che ha commentato in modo sprezzante le parole della nuotatrice azzurra:
“Ma ci è o ci fa? Come fa ad essere contenta?”
Questa è la parte disarmante della storia, ma il bello deve ancora venire, perché, nelle ore e nei giorni successivi, in tanti colleghi atleti si sono detti d’accordo con la reazione di Benedetta Pilato. Lo ha fatto, per esempio, il tennista Andrea Vavassori, un altro perdente, dopo essere stato eliminato dal torneo di doppio misto in coppia con Sara Errani, che ha detto:
“Ha ragione Benedetta Pilato, ormai funziona così, non esiste più la cultura della sconfitta”.
Mentre, pochi giorni prima un altro nuotatore, Tom Peaty, classe 1994, favoritissimo e battuto per un soffio, a sorpresa, dal nostro Niccolò Martinenghi, è uscito dalla vasca in lacrime, spiegando a chiare lettere:
“Non sto piangendo perché sono arrivato secondo. Queste sono lacrime di gioia”.
E ancora, parliamo di scherma e di Filippo Macchi, classe 2001, che secondo critica e tifosi è stato letteralmente derubato da una decisione arbitrale sbagliata che gli ha negato la medaglia d’oro. Poche ore dopo la gara, mentre la polemica si infuocava e il Coni minacciava ricorsi al Cio, l’atleta ha commentato così la sua vicenda sul suo profilo Instagram:
“…Ne ho sentite di ogni, ti hanno derubato, arbitraggio scandaloso, è una vergogna. Eppure a me viene da dire che sono proprio un ragazzo fortunato. Ho 22 anni, una famiglia stupenda, degli amici strepitosi e una fidanzata che mi lascia costantemente senza parole. Sono arrivato secondo alla gara più importante per ogni atleta che pratica sport e proprio perché pratico questo sport ho imparato che le decisioni arbitrali vanno rispettate, sempre!”
Tutte queste riflessioni di atleti impegnati in gare del massimo livello in pista, in vasca, in pedana, ci raccontano che ormai la narrazione della vittoria a tutti i costi e della sconfitta come onta si sta lentamente, ma inesorabilmente, sgretolando. E questo sta succedendo nello sport, un mondo dove l’agonismo e la competizione sono spinti ai massimi livelli di sopportabilità umana.
L’accettazione del fallimento, come momento non solo inevitabile, ma anche prezioso del percorso di vita dell’individuo si sta facendo largo nel nostro tessuto sociale, spinto dal tentativo di ridare senso più profondo e complessità alle nostre esistenze sempre più schiacciate, spremute e svuotate, dalle aspettative della “società della performance”.
Rimanendo al mondo di allori, medaglie, polemiche, tifo, emozioni e sudore dello sport, possiamo scoprire che, addirittura chi di mestiere si occupa di tenere alta la motivazione degli atleti, può allo stesso tempo sentire l’esigenza di un riflessione sul valore della sconfitta o comunque dell’ostacolo, dell’imprevisto, della vita che va oltre gli allori.
Lo ha fatto ad esempio, Stefano Massari, il mental coach che segue, tra gli altri, il tennista azzurro Matteo Berrettini, con un libro che ha un titolo che è tutto un programma O vinci o impari, perché il contrario di vittoria non è sconfitta nella vergogna, ma è opportunità di imparare qualcosa in più e sviluppare le risposte giuste nei momenti di difficoltà che possono illuminare sul valore del mettersi in gioco affrontando limiti e ostacoli. Nel volume sono raccolte le storie e le testimonianze di alcuni dei nomi più importanti dello sport italiano, a iniziare da Dino Zoff e Pietro Mennea.
E non è un segreto che, leggendo Open, la bellissima e dolorosa biografia di un re del tennis, Andrè Agassi, ciò che più ha colpito molti, sono le parole, amarissime, sulla sconfitta:
“vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo. Nemmeno lontanamente”.
Parole contenute in un libro ferocemente sincero.
Parole ed esperienze che dovrebbero far riflettere tutti, sportivi e non, perché il nostro valore non lo stabilisce una medaglia d’oro. D’altronde, a insegnarcelo è stato lo stesso fondatore delle Olimpiadi che scelse come motto:
“L’importante non è vincere ma partecipare”.
Seguendo Parigi 2024 ci accorgiamo che gli atleti della nuova generazione stanno sempre più riscoprendo questo senso, andando oltre le pressioni di un ambiente contaminato da mille altri interessi e rivendicando a voce alta che la pienezza di un’esperienza agonistica va molto oltre la conquista di una medaglia. Ed è una riflessione che dovrebbe valere anche per chi in gara ci si trova 365 giorni l’anno, anche senza partecipare alle Olimpiadi.