Ripudiamo la guerra e qualsiasi forma di sopraffazione e violenza. Molti anni fa questo messaggio si traduceva nelle poche e semplici parole: fate l’amore, non fate la guerra.

Se lo avessimo praticato fino in fondo avremmo risparmiato tantissime vite e tantissime sofferenze e avremmo potuto creare i presupposti di un mondo più giusto ed equo. E avremmo anche potuto preservare ecosistemi preziosi e popolazioni con culture millenarie basate proprio sulla tutela dell’ambiente e della natura. Anche la Costituzione Italiana ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Principio purtroppo spesso inapplicato.

Eliminare le spese per gli armamenti non solo sarebbe giusto ed etico ma anche conveniente: come ci spiega Greenpeace, se 1.8 trilioni di dollari della spesa militare globale del 2018 venissero investiti per ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici, in dieci anni si genererebbe un ritorno economico netto di 7.1 trilioni.

Ma le forze armate, le armi e soprattutto le guerre non solo sottraggono risorse alla riconversione ecologica, rappresentano anche una importante concausa della crisi climatica in atto.

Nella COP26 appena conclusa, tra le tante delusioni, siamo costretti ad annoverare anche il fatto che ancora non si riesce a inserire l’impatto delle spese militari nel computo delle emissioni di gas climalteranti da abbattere al più presto per cercare di contenere il riscaldamento climatico a +1,5 gradi, come ormai tutta la comunità scientifica chiede. Addirittura ancora non c’è l’obbligo per le forze armate di ciascun paese di segnalare le proprie emissioni alle Nazioni Unite che potrebbero usare tali informazioni per le proprie attività e per i report dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change). La segnalazione delle emissioni militari è volontaria.  E ci sono paesi che non forniscono alcuna informazione, paesi con enormi budget militari, come ad esempio la Cina (2^ paese al mondo per spese militari), India (3^ paese al mondo), Arabia Saudita (6^ paese al mondo) e Israele.

Per questo motivo non abbiamo una stima del reale contributo alle emissioni climalteranti della filiera militare, dalla produzione delle armi alla gestione delle forze armate sia dal punto di vista logistico (caserme, uffici, depositi…) che dal punto di vista della movimentazione delle forze armate (spostamenti di terra, mare e cielo).

Si pensi che l’Italia, su base volontaria, ha fornito solo i dati relativi alla movimentazione (essenzialmente i consumi di carburante per spostamenti via terra, mare e cielo) ma non quelli della logistica e tanto meno quelli per le emissioni indirette, come quelle legate alla filiera di approvvigionamento. A titolo di esempio si consideri che le emissioni relative alla movimentazione delle forze militari delle Germania rappresentano solo il 13,9% del totale delle emissioni imputabili al settore militare: secondo uno studio del CEOBs (The Conflict and Enviroment Observatory), un’associazione caritatevole nata nel Regno Unito con l’obiettivo primario sensibilizzare sulla dimensione ambientale dei conflitti armati, il 18,1% è imputabile alla logistica mentre ben il 68% sono emissioni indirette, derivanti cioè dalla catena di approvvigionamento e dall’industria militare.

A partire dai pochi dati a disposizione, questo studio ha stimato che la carbon footprint (bootprint) connessa alle spese militari europee nel 2019 è stata di circa 24,8 milioni di tonnellate di CO2 equivalente: per capire che cosa significa, può essere paragonata alle emissioni annuali di 14 milioni di automobili. È comunque una stima conservativa, se si tiene conto delle molte difficoltà che sono state incontrate nel reperire i dati. Ma se pensiamo che un singolo cacciabombardiere F35 produce 28 tonnellate di COper ogni missione (circa le emissioni un’automobile media per percorrere 290.000 km) ci rendiamo conto delle dimensioni del problema.

Stati Uniti: il più grande consumatore
di combustibili fossili

La situazione negli Stati Uniti è, ovviamente, anche peggiore. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti è il più grande consumatore istituzionale di combustibili fossili al mondo e il più grande emettitore istituzionale. Nel 2017 da solo ha prodotto quasi 60 milioni di tonnellate di CO2, più di Stati come il Marocco e il Perù. Se l’esercito americano fosse un Paese, da quanto dichiara Forbes in base ad un report della Brown University intitolato Costs of the war, il suo consumo di carburante da solo lo renderebbe il 55esimo più grande produttore di gas serra al mondo, più di paesi come Marocco, Perù e Svezia. In altre parole, l’esercito americano è un attore climatico più importante di molti dei Paesi industrializzati riuniti al vertice COP26 di Glasgow. Ma alla COP26 di settore militare non si è nemmeno parlato.

Le emissioni dell’esercito americano hanno rappresentato più del 1,1% del totale delle emissioni degli Stati Uniti del 2017. Un valore simile a quello dell’Europa.

Ma stiamo parlando solo delle emissioni dirette. A queste emissioni si devono aggiungere le emissioni dovute all’uso delle armi, l’impatto sul clima e sull’ambiente delle distruzioni belliche di infrastrutture, case, servizi e l’impatto delle relative ricostruzioni. Senza scordare lo smaltimento delle armi divenute obsolete

Alla luce di queste considerazioni pensare che il contributo del settore militare alla produzione di gas climalteranti sia nell’ordine del 5-6% del totale delle emissioni mondiali non sembra troppo azzardato: più dell’aviazione civile e del trasporto marittimo messi insieme.

Infatti già nel 2009 l’ecopacifista e docente universitario Barry Sanders scriveva che

«Il settore militare non solo inquina ma contamina, trasfigura, rade al suolo. Il destino della Terra e del mondo è nelle mani delle armi»,

sostenendo che le attività dell’esercito Usa contribuiscono da sole ad almeno il 5% delle emissioni di gas serra totali (The Green Zone. The Environmental Costs of Militarism).

Un paradosso su cui dobbiamo prestare molta attenzione è che le armi sono usate proprio nelle guerre per l’energia fossile, come in Iraq, Afghanistan, Iran.

«È tempo di spezzare questo circolo: farla finita con le guerre per i combustibili fossili, e con l’uso dei combustibili fossili per fare le guerre»,

sintetizzava l’appello Stop the Wars, stop the warming lanciato dal movimento World Beyond War (Wbw) nel 2015.

Non possiamo che confermare che fare l’amore, non fare la guerra è sicuramente più salutare per il benessere psicofisico delle persone ma anche del nostro pianeta.

Se vogliamo approfondire il tema delle conseguenze delle guerre e dei disastri climatici su problemi come la povertà e l’emigrazione possiamo leggere Effetto serra, effetto guerra di Mastorjeni e Pasini.
Dobbiamo prendere coscienza che per risolvere la crisi climatica serve una radicale operazione di pace, integrazione, giustizia economica e giustizia sociale.

di Guido Marinelli per conto di Valeria Belardelli

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