Ho sempre ammirato l’immensa capacità di Jonathan Safran Foer nel raccontare storie. Sarà che siamo coetanei, sarà che ho un debole per la letteratura americana, sarà che scrive troppo bene, saranno tutte queste cose insieme che, dopo avermi fatto divorare i suoi tre romanzi, mi hanno spinto a leggere Possiamo salvare il mondo prima di cena

Possiamo salvare il mondo prima di cena è edito in Italia da Guanda nel 2019, con la traduzione di Irene Abigail Piccinini e non è un romanzo, non è un saggio, non è una ricerca scientifica. Più semplicemente è una riflessione, complessa, a volte disarticolata, ma molto convincente sullo stato del nostro pianeta e sulla possibile, anzi probabile estinzione del genere umano nel giro di qualche generazione.

«Dobbiamo fare qualcosa, ci diciamo a vicenda come se affermarlo fosse sufficiente. Dobbiamo fare qualcosa diciamo a noi stessi e poi aspettiamo istruzioni che non arrivano. Sappiamo che stiamo scegliendo la nostra stessa fine; solo che non riusciamo a crederci».

La tesi del libro è racchiusa in queste parole. Facciamo troppo poco per il pianeta. Ci rendiamo conto che i cambiamenti climatici sono un problema, ma li consideriamo ancora fenomeni troppo distanti, come se riguardassero solamente qualche uragano nel Bangladesh e una manciata di orsi polari smunti e claudicanti al Polo Nord o in Groenlandia. Bene, JSF, dati alla mano, spiattella una verità molto più dolorosa. Se continuiamo così, la crisi climatica è inevitabile e sarà la prima nella storia del pianeta determinata da un animale e non da un evento naturale.

La lettura è appassionante e spazia da considerazioni sulle politiche di contrasto all’inquinamento a racconti sulla nonna che insieme a pochi altri scappa da un paesino polacco poco prima dell’arrivo dei nazisti. C’è la consapevolezza di lasciare ai propri figli un mondo peggiore che comporterà sofferenze e stenti per quelli che lo abiteranno dopo di noi e c’è un bagliore di speranza, minuscolo e faticoso. Un piccolo cambiamento che tutti noi potremmo apportare che avrebbe un impatto duraturo e di vasta portata sulla crisi climatica: mangiare meno prodotti animali, farlo una volta al giorno, magari a cena.

«Questo libro parla dell’impatto dell’allevamento sull’ambiente. Eppure sono riuscito a nasconderlo per 75 pagine precedenti. (…) Quando si parla di carne, latticini e uova la gente si mette sulla difensiva. Si infastidisce. A parte i vegani, nessuno muore dalla voglia di affrontare l’argomento, e il fatto che i vegani ne abbiano voglia costituisce un ulteriore disincentivo.»

Basterebbe veramente questo piccolo sforzo collettivo per salvare il pianeta?

A quanto pare sì. A livello globale, l’umanità sfrutta il 59% di tutta la terra coltivabile per crescere foraggio per bestiame; un terzo di tutta l’acqua potabile usata dall’uomo è destinata al bestiame; il 60% di tutti i mammiferi sulla Terra sono animali allevati per il cibo; l’agricoltura animale è responsabile del 91% della deforestazione dell’Amazzonia; se le mucche fossero un paese, si classificherebbero al terzo posto per emissioni di gas serra, dopo Cina e Stati Uniti. L’allevamento animale è responsabile del 37% delle emissioni antropiche di metano e del 65% dee emissioni antropiche di protossido di azoto.

Uno degli aneddoti più convincenti è quello relativo alla missione spaziale Apollo 17 e a quella foto scattata dallo spazio, Blue Marble si chiama, ed è un’immagine famosissima, la prima che mostra la Terra nella sua interezza. C’è chi sostiene che quella foto abbia dato vita al movimento ambientalista. Vedere il pianeta in quel modo, fragile, solo, sospeso nel nulla cosmico, pare abbia suscitato il desiderio collettivo di proteggerlo. 

È l’effetto della veduta d’insieme che cambia la prospettiva e solo una consapevolezza di questo tipo, può spingere la gente ad apportare i cambiamenti necessari. Non c’è evoluzione senza sacrificio e un piccolo sacrificio fatto da tante persone porta con se dei risultati impressionanti.

L’ultima parte del libro Possiamo salvare il mondo prima di cena è una lunga lettera ai suoi figli. Non voglio anticiparla, dico solo che è bellissima. Parla di vita, di morte e degli obblighi che abbiamo verso di noi e verso le altre persone. 

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