Quei cani e gatti mangiati a pasquetta. La scelta della carne
Siamo ciò che mangiamo e la scelta della carne è importante. Ma qual è la carne giusta? Il documentario "Mangiare la felicità"
Siamo ciò che mangiamo e la scelta della carne è importante. Ma qual è la carne giusta? Il documentario "Mangiare la felicità"
La grigliata di pasquetta è un rito e la scelta della carne è fondamentale. Per fortuna tra gli amici troviamo sempre uno o due esperti del barbecue con indosso il grembiule bacia lo chef o con la faccia del maiale felice. Il fuoco va acceso almeno un’ora prima, così da ottenere la brace per tempo. La legna deve essere dura e secca, deve avere le crepe. L’intenditore evita carbonella o peggio ancora diavolina e liquidi infiammabili, perché tradiscono il sapore del cibo. E la carne va rispettata.
Scegliere tipo e taglio richiede sapienza. Qualsiasi macellaio sa che il maiale è il re delle grigliate – un sovrano fatto a pezzi, ma sempre un sovrano. L’Accademia Macelleria Italiana, del suino, consiglia braciole, lonza, costine ma anche salsicce, spiedini e magari pancetta fresca.
Spesso sappiamo nominare ciò che mangiamo, altre volte mangiamo qualcosa di cui non conosciamo il nome. Il termine braciola, per esempio, è un taglio ottenuto dal carré; il carré, termine culinario (non ha significato fin tanto che l’animale è in vita), indica la sezione comprendente le costole, considerata poco pregiata – almeno dall’essere umano.
Lonza invece ha più referenti – meno quello della bestia feroce e inidentificata (lince, ghepardo?) incontrata da Dante nella selva oscura, simbolo di lussuria. In Italia settentrionale la lonza è un salume, in Umbria la carne del collo di maiale e in Toscana – anche qui la Treccani viene in soccorso – al plurale indica guance, labbra o addirittura coda del bue.
Siamo passati quindi dal suino al manzo, immancabile, quest’ultimo, in una grigliata che si rispetti, poiché regge bene le alte temperature. Il sito web di Eataly, offrendo consigli sul barbecue, riporta le opinioni di Sergio Capaldo, fondatore del consorzio di coltivatori di carne. La Granda, presidio Slow Food, e Luca Cantù, chef. I due addetti ai lavori concordano: le migliori selezioni di carne del manzo sono la pancia, il tenerone – fascio di muscoli della schiena – e la bistecca con l’osso. Sono più di venti i tagli bovini possibili: quelli anteriori richiedono una cottura più lenta, i posteriori sono teneri e adatti alla brace.
È una vera scienza, questa definizione dei tagli di carne, una controanatomia, una pratica di scomposizione (smontaggio la chiamerebbe Jeremy Rifkin) schematizzabile in quei poster illustrati che i macellai più creativi attaccano in negozio. Quasi un puzzle, la cui ricomposizione, a ben vedere, mostra un cadavere. Insomma, un’autopsia.
Ipotizziamo adesso quanto segue. Sulla griglia di pasquetta non c’è il re maiale né quel patchwork alimentare che è il bovino; ciò che abbiamo cotto, anzi mangiato, è carne di cane. Accettiamo questa eventualità, per qualche riga ancora. Sarebbe così osceno? Mangiare carne di cane è legale in Ruanda, Namibia, Nigeria, Vietnam, Indonesia e Cina, secondo Wired. Eppure per un europeo è un atto scandaloso.
Il regista cinese Genlin nel 2015 ha realizzato un documentario sul commercio di carne canina, dal titolo Mangiare la felicità: quasi a lasciar intendere che è crudele uccidere un animale felice. Viceversa, un animale triste – assumendo di poter determinare lo stato di animo di una bestia – meriterebbe di essere sacrificato e mangiato?
In realtà, ed è chiaro, la scelta di chi vive e chi muore è solo un fatto di costume alimentare. La scelta della carne – braciola, salsiccia o orecchio di cane – sembra un falso problema. Poco importa se ridono, se sono intelligenti o meno, avrebbe scritto Plutarco – la domanda da porsi è: soffrono?
Chi soffre di più, il micio o il vitello? Saperlo condizionerebbe la nostra scelta? Sul barbecue la carne è carne, il cibo cibo, se non qualcosa di meno. In cottura, e ancor prima nel reparto macelleria, il suino e il bovino sono reificati. Potremmo dire che il rapporto di uomo e donna con il cibo segue, probabilmente, le stesse regole del rapporto con le cose. Detrattori, critici o semplici scettici della dieta vegetale sostengono che l’essere umano è onnivoro, per natura. Eppure il nostro modo di mangiare nulla ha a che fare con la natura, ormai, ed è puro consumo.
Quante volte possiamo dire di conoscere la provenienza di un ortaggio o la paga oraria percepita dal lavoratore che lo ha raccolto? Quanto bene conosciamo le condizioni di lavoro di un corriere Amazon o di un rider? Allo stesso modo, conosciamo lo stato degli animali negli allevamenti intensivi? Capitalismo e globalizzazione, semplificando, giocano questo prestigio: nascondono ai nostri occhi, ai nostri occhi già semichiusi, l’origine di ciò che consumiamo. Noi, d’altro canto, consumiamo per dimenticare e dimentichiamo prima di consumare. Consumismo e indifferenza sono interdipendenti, e parimenti detestabili.
Qual è la carne giusta, per una grigliata o per qualsiasi altra occasione? Esiste una carne giusta? C’è un documentario, Food for Profit, realizzato da Giulia Innocenzi e Pablo D’Ambrosi. È un’inchiesta su politica europea di finanziamenti agli allevamenti intensivi ed estesi conflitti d’interesse vigenti. Reporter sotto copertura della Lav (Lega antivivisezione) hanno raccolto immagini all’interno delle aziende. Ciò che hanno registrato – maltrattamento di animali, condizioni igieniche precarie o inesistenti, ampio utilizzo di antibiotici – non costituisce la parte malata della filiera zootecnica, ma la prassi, la regolarità del sistema. E il ritmo della produzione in serie non permette alternative, né inversione di tendenza.
A questo punto, gli indignati affermerebbero: occorre consumare carne in modo etico! Etico per chi, per l’animale o per la persona? Conigli, polli e merluzzi morirebbero con spontaneità, se sapessero di essere ammazzati eticamente? Anche questo è un punto di vista umano. Anche questo è specismo, discriminazione, diritto arbitrario dell’uomo e della donna di decidere cosa è giusto per le altre specie. Niente di strano che, dall’altra parte, gli animalisti siano radicali; una radicalità, la loro, in risposta all’estremismo dell’industria della carne.
Perché non esiste, a quanto pare, carne buona e non esiste un modo sostenibile di consumare carne (o pesce), perché non esiste un modo sostenibile di uccidere. Poco importa, in conclusione, se mangiamo gatto o agnello. Il sangue è sangue, la prigionia prigionia, il dolore dolore.