Quella voce che trova finalmente strada: Tindaro Granata, Mina e le detenute
Tindaro Granata, il suo ultimo spettacolo "Vorrei una voce"con le detenute del carcere di Messina. In tournèe per tutta Italia.
Tindaro Granata, il suo ultimo spettacolo "Vorrei una voce"con le detenute del carcere di Messina. In tournèe per tutta Italia.
Sa stupirci sempre Tindaro Granata, che nel suo ultimo spettacolo Vorrei una voce sintetizza e incarna l’esperienza vissuta con le detenute del carcere di Messina. Undici detenute con quarantaquattro secondini che le sorvegliano a vista, costringendo il nostro Tindaro-Puk-Lindasy Kemp-un po’ Mina stessa coraggiosamente calva nelle sue ultime copertine, ad arditi escamotages sonori per ascoltarne le vicende più intime.
L’operazione è dichiaratamente trasformativa su più livelli: trasforma la condizione di inerzia iniziale del protagonista, che riscopre in questo laboratorio unico, volto a rappresentare con le donne stesse l’ultimo concerto di Mina tenutosi il 23 agosto del 1978. Trasforma l’isolamento delle detenute, il pudore di racconto in arte, trasforma la narrazione autobiografica dello stesso Tindaro che intervalla le canzoni con la sua educazione sentimentale, senza tralasciarne scabrosità sincere e divertite, trasforma la percezione del pubblico, chiamato in causa fin dai primi riflettori sparati in volto, rendendo interattiva la partecipazione e facendoci sentire meno soli; rispondendo al bisogno più o meno rimosso di auto disvelamento che ci abita.
Perché è di questo che parla lo spettacolo: di quel tedio che nasce dallo stallo nella realizzazione dei propri sogni, e del coraggio di rialzarsi e dare voce a una bellezza, pur sempre venata di malinconia. Del desiderio di essere ascoltati nelle nostre zone più segrete, impudiche, e nello spazio generoso che crea la presenza di risposta. Del recupero del corpo, della sensualità, in uno spazio scenico più che mai androgino, dove ogni declinazione sembra vera e trasfigura l’angustia dei confini di nascita, di vite strette alle origini da famiglie disfunzionali, socialità degradate, miti televisivi.
Sono le lettere scritte che creano un trait d’union virtuoso nella realizzazione di questo progetto originale: le lettere scritte a Mina stessa e la sorpresa di una sua risposta, le lettere a Massimiliano Pani, il figlio che, per sincronicità fortuita, sostiene la realizzazione dello spettacolo, le lettere che il pubblico può far tornare alle detenute stesse come importante feed back dello spettacolo. Lettere che diventano relazione, relazione che diventa arte, dolore trasformato in compartecipazione a dar sollievo collettivo in un teatro che assolve alla sua funzione originaria di catartsi e si fa caminetto a una platea infreddolita dal Novembre improvviso e forse dalle proprie stesse maschere.
Nel calore della Sala Umberto di Roma, che a tratti si trasformava in nostalgico karaoke, ho forse perso il nome esplicitamente rivelato di quel malessere originario che ha spinto Tindaro a rispondere a quella chiamata estrema, ma poco cambia in fondo, lo conosciamo tutti bene.
In tournèe per tutta Italia.