Su queste pagine, che sono un po’ il diario della mia personale ricerca poetica, incido con sangue e stenti i segni che il verso lascia sulla mia nuda carne, io mutante apprendista alla ricerca del vuoto.

Il mio personale Mortirolo sono le parole che ancora non ho letto, sono le sensazioni che ancora non ho provato. Allora immaginando di vivere la natura dello scalatore, che vince la salita spezzando il vento alla ruota di un compagno che cambia il passo, sono un gregario della poesia e con ogni mia fibra muscolare lancio verso la vetta il poeta che trova oggi il suo volto in Mattia Tarantino.

Il poeta Mattia Tarantino codirige Inverso, giornale di poesia, e fa parte della redazione del trimestrale di letteratura,poesia e scrittura Atelier. Collabora con numerose riviste, in Italia e all’estero, tra cui Buenos Aires Poetry. I suoi versi sono stati tradotti in più di dieci lingue.

In questa intervista, Mattia Tarantino mi svela le sue necessità espressive e la sua ricerca linguistica.

Trovo nei tuoi versi un riverbero di luce che anela l’ombra, quanto è profondo il solco della tua penna?
Questa è una domanda da rivolgere alla critica. Ammesso, comunque, che la scrittura abbia a che fare con la profondità: mi sembra si tratti, piuttosto, di piani, rettangoli, superfici. Un crocevia di superfici abissali.


Sembra evidente un evoluzione non solo stilistica nella scrittura di Mattia Tarantino, ma figlia di una necessità d’espressione. A che punto sei della tua ricerca linguistica?
Sto imparando a scrivere i nomi. Occorre, poi, un lessico per la quotidianità, uno per le allucinazioni. Ancora una volta un crocevia. Forse, una rotonda. Qualcuno scriveva: “Alla terra di mezzo ti cerchiamo / Padrone di ben altre sfere e ruote”…

Le vite raccolte nei tuoi versi che si incrociano con la tua in un ciclo di perpetua attesa che resta volutamente irrisolta. Parlami di questo.
L’attesa è dell’innamorato, del Lunare. È di Giustiniano, l’Insonne, che parla a notte fonda con i vescovi. Parlo di Nicola, qui, di Dario e Bruno. Accenno alle loro vite, provo a indicare la coincidenza, la non-coincidenza, tra queste e la loro forma. La poesia come testimonianza di una forma di vita senza testimoni. Parlo di Ginevra, del sistema di segni che la attraversa, del codice, dell’orbita che cifra e svela. Parlo delle loro sigarette di troppo, della sua ombra bianca.

Per Ginevra
I
Mezzanotte. Ombre alla parete:
ora la tua testa sembra un cane di foglie,
una stella sfasciata, e la mia
un trapezio, un chiodo,
quasi una preghiera.
II
Mezzogiorno. Ci baciamo. Ora
sembri il raggio di una ruota
misteriosa, trasparente. La mia
faccia trapiantata da quella
di un angelo, invece.
III
Mezzanotte, mezzogiorno. Le cose
cominciano l’istante appena
dopo la metà. Siamo la cifra nascosta
tra l’uno e lo zero nel dieci.

Ascolta. È San Lorenzo. Sotto casa
passano le ultime automobili. L’arco
e la chiesa sono illuminati, come le teche
dei teschi, i giardini del convento.
Mamma fuma. Qualcuno in strada
chiede l’ora. Stanotte l’angelo
non bussa. Tossisce,
invece, e va via in fretta.
Dicono che se ascolti
attentamente puoi sentire
da qualche parte come un leggero
fruscio, qualcosa che striscia:
è una cometa scivolata
giù in silenzio, una stella
irrimediabile, oppure
soltanto un grosso ratto.
Abbiamo l’erba e una bottiglia
di latte. Fumiamo. Qualcosa
Sta cambiando: è estate,
l’estate dei vent’anni, e il mondo
ci minaccia, ci consola,
ci appartiene.

Siamo in vista del Gran Premio della Montagna, si alza sui pedali, controlla che il rapporto sia quello che meglio dia slancio al suo passo, ed è un altro scatto del poeta a scalfire l’asfalto, un trepidante silenzio raccoglie il pensiero ansimante e si scollina nel divenire.

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