English translation below 

Il viaggio è stato traumatico, si è dovuto lasciare le proprie case per una guerra improvvisa e per una pioggia di bombardamenti. Ci si rifugia accolti nel paese vicino, ospiti di piccole costruzioni prefabbricate, in un campo di profughi o in una città. Tra questi paesaggi che restano sullo sfondo, il racconto di ciò che si è abbandonato si fa esile, essenziale fino a rinunciare alla parola, a una qualsiasi immagine: basta un filo di voce. Invitat* di fronte alla telecamera, senza uno sguardo atteggiato o un’espressione ricercata, alcun* rifugiat* ucrain* in Polonia guardano fisso nell’obiettivo.

Si presentano ed emettono un suono che imita il rumore dell’esplosione di una granata, la sirena di allarme, il sibilo di un missile, il mitragliare di un combattimento nel villaggio. Ognun* ripete quel rumore che è rimasto impresso come sa, come può, con gli occhi sbarrati. Altroché se rende l’idea, il realismo è impressionante, si capisce che quegli spari gli sono entrati dentro. Dopo circa un minuto di riproduzione vocale da parte di un rifugiat*, avanti un altr*, con un altro tipo di esplosione, di arma da farci ascoltare, con quegli occhi che solo ammiccano a un rendo l’idea?.

Polonia alla Biennale, un tappeto sonoro

È un tappeto sonoro che lascia esterrefatti gli spettator* del Padiglione della Polonia alla Biennale di Venezia, forse il più bello tra quelli nazionali, perché raramente la guerra è stata raccontata in una forma talmente ibrida e semplice e il racconto di viaggio si è trasfigurato in una forma di poesia senza parole e senza musica, eppure talmente eloquente: non c’è un commento, una parola di troppo, una messa in scena, tutto è fluido e naturale in questo progetto dell’Open Group di Yuriy Biley, Pavlo Kovach, Anton Varga.

I volti che ci appaiono sullo schermo sono di persone comuni, nessun eroe, nessuna eroina, nessun guerriero o guerriera – solo vittime nel cuore dell’Europa, persone come noi; in una tale banalità dell’apparenza, nessuno dei rifugiat* è un virtuos* del canto o un attor*. La loro imitazione del fragore di una bomba ricorda le didascalie dei fumetti (“tutututu… boom… iiiihhhiiihhhh”), e a rinsaldare questa immedesimazione c’è il meccanismo del karaoke: i visitator* sono inviati da ripetere questi suoni, a farli nostri.

Pare una sciocchezza, ma pronunciare la voce di una bomba, dà un vero brivido, diventando anche noi  profughi di una guerra, vittime di un’aggressione, e difendendo la nostra dignità con il meccanismo dell’imitazione approssimativa di ciò che ci ha aggredito, con l’arma del gioco di un bambin*.   

ENGLISH VERSION

Repeat after me: it is war, a travel story, it is a tragic and artistic karaoke. The Polish Pavilion at the Venice Biennale

The journey was traumatic, having to leave their homes because of a sudden war and a rain of bombings. They take refuge in the nearby country, guests of small prefabricated buildings, in a refugee camp or in a town. Among these landscapes in the background, the story of what has been abandoned becomes thin, essential to the point of giving up words, any image: a thread of a voice is enough. Invited in front of the camera, without a pose or a refined expression, Ukrainian refugees stare straight into the lens, introduce themselves and emit a sound that imitates the noise of a grenade explosion, the alarm siren, the hiss of a missile, the machine gun fire of a battle in the village.

Each of them repeat a noise  that has remained imprinted, they reproduce the sound as they can, with eyes wide open or closed. The realism is impressive, one understands that those shots have entered inside them. After about a minute of vocal reproduction by a refugee, here is another, with another type of explosion, of weapon to make us listen to, with those eyes that only wink at a “do I get the idea?”.

Such a sound carpet leaves the spectators of the Polish Pavilion at the Venice Biennale astonished, perhaps the most beautiful among the national shows, because rarely has war been told in such a hybrid and simple form and the travel story has been transfigured into a form of poetry without words and without music, yet so eloquent: there is no comment, a “staging”, everything is fluid and natural in this project by the Open Group of Yuriy Biley, Pavlo Kovach, Anton Varga.

The faces that appear on the screen are of ordinary people, no heroes, no warriors – only victims in the heart of Europe, “people like us”; in such a banality of appearance, none of the refugees is a virtuoso of singing or an actor. Their imitation of the roar of a bomb recalls the captions of comic strips (“tutututu… boom… iiiihhhiiihhhh”), and to reinforce this identification there is the mechanism of karaoke: visitors are invited to repeat these sounds, to make them their own. It seems silly, but pronouncing the voice of a bomb gives a real thrill, the start of a process of becoming ourselves refugees of a war, victims of an aggression, and defending our dignity with the mechanism of the approximate imitation of what attacked us, with the weapon of a child’s game.

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