In più di un’occasione, in questo blog, mi sono soffermato sul ruolo della scienza nel settore dell’agroalimentare. E in questi giorni in cui il conflitto con i no-vax è particolarmente aspro – aggiungendo un nuovo capitolo allo scontro tra chi crede ciecamente nella scienza ufficiale e istituzionale e chi ne diffida, appellandosi al pericolo di una oligarchia tecnocratica che non rivela tutto ciò che sa – è fondamentale parlarne.

Anche nel mondo dell’agro-alimentare si registra il conflitto tra scienza e… tecniche alternative ed è anche molto acceso, come visto per la polemica tra agricoltura tradizionale e industriale e agricoltura biologica e biodinamica, di cui ho parlato qui.

Anche in tale ambito ci sono posizioni fanatiche e ideologiche – in verità in entrambi gli schieramenti – anche se bisogna fare chiarezza su un punto: la scienza e le tecnologie agricole hanno portato grandi benefici alla produzione alimentare, liberando i contadini da lavori faticosissimi, aumentando le rese, migliorando l’irrigazione, favorendo la creazione di prodotti nuovi e gustosi. Pensiamo alle tecniche dei canali per irrigare i campi, ai trattori, ai concimi, agli innesti, ecc.

E del resto è vero che da quando l’essere umano ha inventato l’agricoltura non fa altro che usare la sua conoscenza per modificare la natura in modo che questa dia dei frutti a lui utili per l’alimentazione e non solo. Questo però non vuol dire che non siano stati superati dei confini che andavano rispettati.

Meriti e demeriti della scienza

Nell’utilizzo delle tecnologie in campo agricolo, infatti, sono stati inventati e adoperati prodotti che impoveriscono il suolo, che lasciano sostanze tossiche nei prodotti, che alterano il clima, che nuocciono agli animali da allevamento; sono stati modificati geneticamente i semi per brevettarli ed escludere altri agricoltori dalla loro produzione, sono stati standardizzati i sapori e disboscate le foreste. Di qui, anche la critica verso una fiducia incondizionata e riduzionista nel metodo tecnico-scientifico ha un suo senso: la tecnica deve essere uno strumento, per migliorare le nostre vite, non per peggiorarle; inoltre, deve essere possibile mettere in discussione, criticare e limitare/proibire determinati usi che delle varie scoperte o invenzioni scientifiche.

Per questo i vari movimenti antiscientifici hanno almeno un merito: smentire alcune concezioni semplicistiche del metodo scientifico. Di qui, si può dire che: la scienza non è sempre oggettiva e certa al 100%, infatti il metodo scientifico procede per sperimentazioni e tentativi; la scienza non è sempre neutra e obiettiva, infatti molti risultati scientifici prendono il via da una tesi, che si vuole dimostrare, e subiscono contaminazioni da interessi altri, più o meno forti; la scienza può fare del bene, ma anche del male, come dimostrano le invenzioni della pistola o della bomba nucleare.

A fronte dei limiti che ogni disciplina scientifica ha, inevitabilmente, occorre trovare un contrappeso, un bilanciamento, una risposta. L’errore più comune – sia da parte dei favorevoli, sia da parte dei contrari – è pensare che la risposta alla fallacia scientifica sia la superstizione, le tradizioni popolari, il rimedio fai-da-te, il fanatismo religioso. L’altro errore è di pensare che se la scienza sbaglia se ne debba fare a meno.

La politica come strumento per
ottenere dalla scienza solo il meglio

Al contrario, l’approccio più efficace e più corretto è in realtà un Giano bifronte, nel quale da un lato vi sono le conoscenze, la tecnica, l’expertise e le teorie scientifiche e dall’altro vi è la politica. La politica in senso nobile, in senso alto, con la P maiuscola. In ogni decisione che prendiamo – sia pubblica, sia privata – dobbiamo tenere conto delle valutazioni tecnico-scientifiche di cui siamo in possesso e, al contempo, della nostra volontà politica di agire, di intervenire sul mondo attorno a noi, di modificare un evento, o di proteggerlo affinché sia perpetuato.

Questa è la politica: intervenire sul mondo attorno a noi per massimizzare il bene comune, secondo un approccio ragionevole.

La politica si fonda infatti sul principio di ragionevolezza, ossia sulla ponderazione ragionata delle questioni in gioco, sulla coerenza delle decisioni, sull’orientamento della popolazione e sul benessere generale. La politica che valuta le possibili conseguenze e che mette sul piatto gli interessi coinvolti, bilanciandoli. La politica che risponde delle sue decisioni (accountability) e che non deve – proprio come la scienza – prevaricare e superare i confini che le sono stati assegnati (in teoria dal diritto, che è un’altra scienza, anche se sociale).

La politica è ragionevolezza, in quanto rispecchia la phronesis aristotelica, ossia la prudenza del saggio che guarda alla realtà, distinguendo fra le possibili alternative tra cui scegliere. Ce lo insegna Aristotele, nel suo Etica Nichomachea, (Bompiani, 2000, libri II – VI).

Il concetto di ragionevolezza è centrale nella regolazione pubblica di settori come quello agroalimentare perché dovrebbe guidare l’azione del potere pubblico basato sia sulle conoscenze scientifiche prodotte da esperti, sia sulle conseguenze economiche, politiche, culturali e sociali delle decisioni da prendere. Per questo ogni decisione ragionevole si basta su una discrezionalità confinata nei limiti stabiliti dalla tecnica e in quelli indicati dalla politica, oltre a quelli già definiti dal diritto, dalle regole.

È solo così che si possono bilanciare i due approcci, mantenendoli entrambi, e ottenere decisioni il più possibili corrette, imparziali, lungimiranti, nell’interesse della maggioranza dei cittadini.

E ciò vale in modo particolare in agricoltura: non si può rinunciare all’apporto fornito dalla comunità scientifica e dalle scoperte tecnologiche; non si può vietare la produzione di un alimento se questo non è nocivo o non presenta rischi per la salute umana, animale e vegetale. Al tempo stesso, non si può fare affidamento solo sui risultati ottenuti in laboratorio, considerando che quell’alimento non solo non deve far male quando lo si ingerisce, ma non deve produrre danni sul lungo periodo, la sua produzione non deve danneggiare l’ambiente attorno, il suo consumo deve apportare benefici di natura culturale, nutrizionale e persino spirituale, e così via.

Nel campo alimentare, più di altri, non si può applicare un criterio riduzionista, che si basa solo sugli studi scientifici di un esperto, che oltre a potersi sbagliare, essere in malafede, non essere aggiornato, potrebbe non conoscere gli effetti che quel prodotto potrebbe avere in altri campi fondamentali del mondo in cui viviamo: ambiente, cultura, economia. Ma non si deve nemmeno avere un approccio meramente ideologico, fanatico, o basato sulla superstizione. Si devono combinare scienza e politica, secondo un approccio di ragionevolezza.

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