Tutto il male che è dentro di noi. Intervista a Valerio de Filippis
Può l’arte affrancare l’orrore? Riflessioni su "Ibiscus" un quadro di Valerio de Filippis. La bellezza può salvare? Il biopic “Vae Victis”
Può l’arte affrancare l’orrore? Riflessioni su "Ibiscus" un quadro di Valerio de Filippis. La bellezza può salvare? Il biopic “Vae Victis”
Ecco, c’è questo quadro, che è un autoritratto del suo autore. D’altronde lui assume sempre sé stesso come modello maschile: una ripetizione che è narcisismo e ossessione, furia e conciliazione. Il quadro l’ha chiamato Ibiscus. Non Svastica, non Lama, e neanche Sangue. Ibiscus. La svastica ha una patina d’oro, riluce. Il coltello è fermo, a metà dell’atto di essere sguainato. Provo a parlarne col suo autore, Valerio de Filippis.
Qui tu ti sei messo una svastica bene in vista sul petto: qual è l’intenzione, quella di esporre il nazista che è dentro di te?
Forse. Perché no. Il nazismo che è in me, il nazismo che è in ognuno. C’è questo fascino, il fascino del male. Le adunate del nazismo riescono a rapire esteticamente i sensi: quei colori, il nero, il rosso, le divise, le bandiere…
Il nazismo è un pensiero forte, il Diavolo è un pensiero forte. Infatti produce il Satanismo. E chi aderisce al satanismo non recede di fronte a nessuna opposizione: vuol essere cattivo fino alla morte.
La forza è una virtù, no? è questa la trappola.
E poi nel quadro c’è tutto questo rosso sangue, che va a sbocciare nei fiori dell’ibiscus.
Vuoi dire che canalizza l’energia negativa nella bellezza?
Sì, te lo chiedo: la bellezza può salvare?
Sì, se c’è qualcosa che ti salva è la bellezza. La bellezza ti salva.
“Se c’è qualcosa che ti salva, è la bellezza”
Valerio conosce bene il male, dentro e fuori di sé. Giovanissimo, partecipa a una rapina che finisce in omicidio e trascorre sei anni in carcere. Conosce fino in fondo il male dei compagni di cella, il male delle guardie carcerarie, il male del sistema.
Ancora prima, ha conosciuto una famiglia stracciata. E mentre è rinchiuso in cella, quasi esce di senno quando la sorella, cui è legatissimo, si suicida, e non gli danno il permesso di andare al suo funerale. Sbatte più volte la testa contro il muro, devono sedarlo.
In carcere trova un potente boss che lo protegge – lui così giovane e carino, e anche così borghese – e che gli insegna a sopravvivere lì dentro. Ma, sorprendentemente, quel boss non gli dà solo l’ABC del carcerato: gli trasmette in qualche modo dei valori – la lealtà, la disciplina, la fede in qualcosa – quelli che gli sono mancati da parte del padre, intellettuale sequestrato da troppo vaghe filosofie.
E poi in carcere impara un mestiere, costruire cornici. E siccome sin da bambino ha un talento per il disegno, una zia in visita gli porta in regalo dei libri di storia dell’arte, e lui li studia. Prende la maturità in carcere. Con i soldi guadagnati con le cornici, compra tele e pennelli e dipinge, dipinge ossessivamente, anche dieci ore al giorno, non prende più neanche l’ora d’aria.
È così che affina una tecnica incredibile, è così che fugge i suoi fantasmi. E così che rielabora quei valori eterni, che gli trasmette il boss, attraverso la cultura che intanto si va formando con lo studio e l’esercizio della bellezza. È così che la direzione del carcere scopre che c’è un giovane che produce ritratti che sempre più gli vengono commissionati e pagati dai compagni e dalle guardie. Esce dal carcere a 26 anni. Per un po’ si sfrena con le moto e le donne. Ma non si mette mai più nei guai.
“Al fascino estetico del male, al suo fascino epico, non soccombi più nel momento in cui il tuo super io te lo mostra in tutta la sua perversione e abiezione. Io gli errori nella vita li faccio una volta sola”, dice.
E comunque la pittura gli ha salvato la vita. Una vita raccontata con sforature nell’orrore nel biopic titolato Vae Victis, già nome di uno dei cicli pittorici dedicato agli emarginati, a quelli che falliscono, che cadono, rimangono indietro.
“Il demone che anima ogni essere umano è una elaborazione robusta e molto complessa che viene costruita, a volte in modo totalmente inconsapevole, ogni minuto di vita consumata”, ha scritto Cecilia Paolini, storica dell’arte, a proposito dei quadri di de Filippis.
Homo Parabellum (scritto tutto attaccato, come nella Beretta Parabellum), cioè Uomo Pronto alla Guerra, è uno dei cicli pittorici in cui l’uccisione fisica torna in maniera prepotente, così come l’indifferenza delle persone al male che sta arrivando, l’esplosione della sofferenza nella sordità generale.