Ucb Pharma: “Qui la parità è un fatto, la vita si allunga, bisogna cambiare la nostra filosofia di lavoro”
L’ad Federico Chinni: “La ripartizione classica studio-lavoro-pensione non esisterà più, le carriere diventeranno multifase”.

L’ad Federico Chinni: “La ripartizione classica studio-lavoro-pensione non esisterà più, le carriere diventeranno multifase”.
Federico Chinni, amministratore delegato in Italia di Ucb Pharma, gigante farmaceutico internazionale con sede in Belgio e 8700 dipendenti nel mondo, crede fermamente nella parità di genere. E nella sua azienda il gender balance è molto efficace.
Spiega: “Qui il rapporto uomini/donne è vicino al 50% , e anche a livello dirigenziale il gap non è rilevante”. Poi racconta un episodio: “Poco tempo fa ero a Parigi in una cena di lavoro e mi sono trovato al tavolo con 11 donne. Una mi ha detto: ora hai capito come ci sentiamo noi? Eh si, ho capito, ho risposto”.
Chinni, un’azienda farmaceutica è un’impresa un po’ diversa dalle altre. Perchè il suo scopo è la salute ed il benessere della popolazione. E ovviamente quello di dipendenti, compresa la parte femminile, che deve avere il diritto a pari opportunità. E’ così?
“Da noi è già cosi, come le dicevo. E in generale il mondo della farmaceutica è estremamente bilanciato, soprattutto nel comparto della ricerca, dove la presenza femminile è altissima. Ma se guardiamo in generale però è sicuro che una donna in Italia ancora oggi fa tantissima fatica ad emergere. Avremo un mondo più giusto quando ci concentreremo su fatto che le cose vanno fatte bene indipendentemente da chi le fa, uomo o donna”. E poi un’azienda farmaceutica è particolare anche per un altro motivo”.
Quale?
“Lavorare in questo settore significa diventare un partner della salute del Paese in cui lavori e della cittadinanza di cui fai parte, e senti che puoi lasciare un segno, anche evidente. Credo che sia chiaro a tutti che senza salute non c’è economia e che quindi un presidio forte sia un valore incommensurabile”.
La salute è economia, dice. E la speranza di vita continua ad allungarsi. Chi riflessi ha questo sulla società e sulla vostra attività, sul mondo del lavoro?
“Ogni dieci anni l’età media si allunga circa di 2,5 anni e questa è un’ottima notizia. Ma comporta anche delle conseguenze. La prima: siamo un Paese in inverno demografico, come si dice, che invecchia sempre di più e che ha i conti pubblici sotto pressione, come anche i costi del servizio sanitario e dell’assistenza, mettendo a rischio il concetto di universalità delle prestazioni erogate. La seconda: il concetto di pensione. Se viviamo di più dovremo lavorare molto più a lungo. Abbandonando il concetto della tripartizione, cioè studio-lavoro-pensione, perché non esisterà più; e abbandonare la logica per la quale io mi impegno al massimo, cerco di correre il più possibile e di arrivare il più in alto possibile per poi nella terza fase della mia vita riposarmi. Vanno costruite carriere multifase”.
Cosa significa concretamente?
“Cambiare il pensiero del lavoro e delle carriere. Consideriamo di più per esempio gli anni sabbatici, di fare lavori diversi, di prenderci delle pause, di pensare alla genitorialità non più collegata al gender ma ovviamente trasversale. Il vecchio schema funzionava prima perché il viaggio era più corto. Con una prospettiva temporale più lunga possiamo considerare di recuperare tante cose che prima si perdevano”.
Immagino che questa filosofia sia anche parte della vostra azienda…
“Certamente. Qui abbiamo impostato il nostro percorso di lavoro, la cosiddetta People Strategy su 4 punti. Il primo è il Dna, che significa capire e fare cultura, proteggendo le diversità. Non basta la persona più intelligente in una stanza, la stanza deve essere la somma di intelligenze collettive.
Il secondo elemento è quello che chiamiamo People Grow, cioè la parte di formazione, che consiste nell’offrire ai nostri collaboratori la possibilità di imparare cose diverse e quindi occasioni di crescita. Stimolando il rapporto dialettico e preparando un Personal Development Plan in una prospettiva a lungo termine.
Il terzo punto è l’evoluzione culturale, affinando il senso di responsabilità e la semplificazione nei processi, rendendoli meno complessi, perchè la complessità è oggi uno dei principali motivi di disaffezione dei collaboratori nei confronti della propria azienda.
Il quarto punto è il Well Being. Se la strada dell’età è più lunga dobbiamo goderci il viaggio. E allora qui abbiamo un modello ibrido di presenza, che prevede il 40% del tempo in ufficio a settimana, due giorni di flessibilità, abolizione del badge, flessibilità nei gruppi di lavoro, uffici senza scrivanie. Il tutto con l’aiuto dell’Intelligenza Artificiale per ridurre il carico cognitivo su processi a basso valore aggiunto e riconvertire il tempo in attività a valore aggiunto. tra cui, perché no, anche attività che mi permettano di stare di più con la mia famiglia“.
Voi producete medicinali. Questa filosofia coinvolge anche i destinatari finali delle vostra attività , cioè i pazienti?
“Noi coinvolgiamo i pazienti per andare a disegnare le terapie che possono poi un domani servire. E usiamo il concetto di Dna, cioè capire e fare cultura, anche nel disegno degli studi clinici. Tenga presente che oggi gli studi clinici solitamente sono fatti su un fenotipo che è il maschio caucasico, anche se poi le popolazioni di pazienti che effettivamente utilizzeranno il farmaco saranno molto diverse da quelle che hanno portato alla sua approvazione. E questo comporta che si verifica come funziona il farmaco dopo la sua approvazione. Un famoso reumatologo di Pisa diceva che negli studi clinici ci sono le modelle di Armani, poi quando provi il farmaco ci sono le signore che incontri a fare la spesa al supermercato. Noi stiamo cercando di mettere un po quel filtro di DNA, cioè includere le sottopopolazioni anche nel disegno dello studio clinico”.
E perciò avete un rapporto diretto con i pazienti, unite l’azienda con i malati?
“Noi lo chiamiamo Connecting Care, per uscire dal claim del mondo farmaceutico che usa la frase “mettere il paziente al centro”. Non ci piace perché da l’idea di un gruppo di persone che sta bene e che guarda una persona che sta male, cercando una soluzione per lui. In realtà quello che noi vogliamo fare è portare il paziente a sedere ai tavoli delle decisioni che lo riguardano, insieme con gli altri stakeholder che sono l’industria privata, ovviamente farmaceutica, che sono le istituzioni, la classe medica. Se riesci a far dialogare bene queste componenti come se fossero nello stesso team, allora hai prodotto un grandissimo valore aggiunto”.
Voi fate anche tanta ricerca. Quanto è importante per voi?
“Moltissimo. In Italia la ricerca sconta una scarsezza di risorse cronica, e l’industria offre delle opportunità parallele ai ricarcatori. Ricordiamoci che ogni euro investito in uno studio clinico in Italia ne genera almeno tre di effettivo guadagno per il Sistema Sanitario Nazionale, e quindi dovrebbe essere molto incentivato. La Spagna lo sta facendo: il governo Sanchez ha semplificato tutta la preparazione degli studi clinici, ed oggi il suo paese è diventato quello che attrae più risorse”.