Le norme che tutelano i diritti dei lavoratori si estendono anche alla fase di recruiting in cui possono manifestarsi comportamenti e azioni discriminatorie che ostacolano l’accesso equo al lavoro minando i principi fondamentali di uguaglianza e meritocrazia.

Nonostante la presenza di disposizioni volte a prevenire tali pratiche la problematica persiste e richiede un’analisi approfondita delle sue cause e manifestazioni che stimolano il tentativo di individuare adeguate soluzioni.

Recruiting, la direttiva del Consiglio Europeo

La Direttiva 2000/78/ce del Consiglio Europeo che delinea un quadro generale per la parità di genere in materia di occupazione e condizioni di lavoro, introduce il concetto di discriminazione nelle due diverse forme diretta e indiretta.

La prima si verifica quando, in condizioni analoghe, una persona è trattata in modo meno favorevole rispetto ad un’altra; quella indiretta, invece, avviene quando una organizzazione, una prassi o regole apparentemente neutre si traducono in una posizione di vantaggio per una categoria o gruppo di lavoratori.

Se analizziamo i dati emerge che le discriminazioni più frequenti durante il processo di selezione del personale, di recruiting, sono quelle sul genere, a cui si affiancano quelle basate sull’età, sui motivi etnici e le discriminazioni delle persone con disabilità. Per ciascuna di queste azioni vi sono previsioni normative che le considerano illegittime, come l’art. 37 Costituzione che garantisce parità di accesso ad ogni attività lavorativa o istituzionale, la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, la legge 68/1999, il Codice delle Pari Opportunità che promuove l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, alle quali sono ispirate norme non sempre applicate e spesso disconosciute.

L’influenza dei bias cognitivi

Numerosi studi dimostrano che i processi di selezione sono fortemente influenzati da bias cognitivi, come dimostra una ricerca pubblicata su Harvard Business Review del 2020 in cui si evidenzia che i recruiter tendono a favorire candidati con nomi occidentali, eliminando inconsciamente quelli associati a minoranze etniche verso le quali nutrono una marcata diffidenza. Allo stesso modo si pensa che certe nazionalità siano più adeguate a svolgere mansioni manuali e senza responsabilità o potere decisionale.

Al contrario la ricerca di Bertrand e Mullainathan del 2004 dimostra che i curricula con nomi anglosassoni ricevono il 50% di chiamate in più rispetto a quelli con nomi associati ad altre etnie, a parità di qualifiche. Il recruiter imposta il processo selettivo sulla base di un set di informazioni che tendono a confermare i propri stereotipi facendo ricadere la scelta su candidati con i quali condivide tratti comuni, background o proiezioni culturali con il naturale effetto di costruire ambienti e contesti lavorativi omogenei.

Il processo descritto ha lo svantaggio di produrre effetti opposti a quelli sperati o desiderati. Immaginare che vi sia un unico modello di comunità che non tenga conto delle individualità e delle specificità del lavoratore, come fosse spersonalizzato è un abbaglio dal quale è bene rendersi contro per evitare che ci siano, nel corso dello svolgimento dell’attività lavorativa, delle evitabili sorprese. La contemporaneità si caratterizza anche per la trasformazione nella concezione del lavoro e, soprattutto del rapporto con l’attività lavorativa e non tener conto di questa metamorfosi rischia di emarginare le realtà produttive rendendole non competitive e di non fare incontrare la domanda con l’offerta.

E già di primi passi, nel recruiting, che l’azienda muove verso il mondo dei lavoratori a mettere a nudo la propria visione su questi principi di equità, diversità ed inclusione che le posiziona sotto il profilo reputazionale verso il mercato dei lavoratori. Serve costruire all’interno della propria impresa e a tutti i livelli, una visione di tendenza e al contempo di controtendenza assumendo come condivisi i principi di diversità ed inclusione.

E’ un percorso anche avvincente, ma indubbiamente proficuo che decostruisce in modo gentile il sistema valoriale basato su pre-concetti sempre più inadeguati a trovare le più efficaci risposte alle esigenze dell’azienda e di riflesso del mercato. Sono molte le attività che si possono mettere in atto per correggere alcune storture nel pieno rispetto della struttura aziendale e della sua connotazione, per garantire un processo di selezione equo e inclusivo. Sarebbe dunque importante impostare una formazione sui recruiter che favorisca la consapevolezza di propri pregiudizi per ridurne l’impatto, introdurre strumenti di preselezione anonimi durante le prime fasi.

Photo by aymane jdidi on Pixabay

Il ruolo dell’AI nel processo di selezione

Anche l’intelligenza artificiale può aiutare a standardizzare il processo di selezione, ma deve essere progettata per evitare la perpetuazione di bias discriminatori. In linea con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza le aziende dovrebbero adottare politiche che premiano l’inclusione, come i bilanci di genere e i programmi di mentorship per categorie svantaggiate.

Il Global Reporting Initiative (GRI) raccomanda alle aziende di rendere pubbliche le metriche sulla diversità e sulle pratiche di reclutamento, favorendo una cultura di accountability. La discriminazione nella fase di recruiting non è solo una questione morale, ma anche economica e giuridica.

Gli studi dimostrano che aziende più diversificate registrano una maggiore redditività (McKinsey, 2020), confermando che la diversità è un vantaggio competitivo. Adottare pratiche di selezione basate su merito e inclusione non solo permette di rispettare le normative vigenti, ma contribuisce a costruire un mercato del lavoro più giusto, capace di valorizzare il potenziale di ogni individuo. Le aziende che integrano questi principi nel loro modello operativo non solo migliorano la propria reputazione, ma contribuiscono attivamente al progresso sociale ed economico.

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