In un momento in cui si può solo viaggiare con la mente per un’emergenza mondiale che non si sa quando finirà, esiste nell’immaginario collettivo un luogo lontano e sconfinato.
La Mongolia è un paese poco popolato rispetto alla sua superficie e con una natura prevalentemente selvaggia che domina e regola tutti i momenti della vita di una popolazione composta soprattutto da nomadi.

Questo paese colpisce per i suoi paesaggi sconfinati che provocano, soprattutto nel visitatore occidentale abituato a una realtà molto congestionata, una sensazione di vuoto e di solitudine. Viaggiare al suo interno è stato molto difficile e faticoso a causa del pessimo stato della rete viaria: pochissime le strade asfaltate, e le piste devono essere percorse con mezzi a quattro ruote motrici, come il famoso fuoristrada UAZ con cui ho attraversato gran parte della Mongolia. L’assenza di qualsiasi indicazione stradale e i ridotti trasporti pubblici rendono necessario disporre di un mezzo con autista autoctono.

La metà della popolazione mongola vive in permanenza in aree urbane, il 25% circa conduce una vita prettamente nomade ed un altro 25%, seminomade, vive nei villaggi d’inverno e porta gli animali a pascolare nelle steppe durante le altre stagioni dell’anno.
I nomadi, pur nei continui spostamenti, a causa delle condizioni ambientali, conducono una vita improntata a una certa regolarità e ripetitività, per cui l’idea del nomade che vive in modo completamente libero, in questo caso, non è del tutto esatta. Ogni giorno devono affrontare e superare molteplici difficoltà che minacciano la loro sopravvivenza.

Tutti i movimenti e le regole di comportamento sono determinati dall’esigenza fondamentale di resistere nelle condizioni più estreme. Il clima molto rigido, infatti, condiziona e scandisce gli usi e i costumi di questo glorioso popolo discendente da Gengis Khan.
La primavera, in particolare, con un clima secco, ventoso e polveroso è una stagione cruciale: è la stagione della disperazione, perché gli animali più deboli, e spesso anche gli uomini, muoiono. Nonostante le bassissime temperature, che toccano punte di 50° sottozero, i mongoli si sentono più a loro agio nella stagione invernale. Infatti, dopo le difficoltà e le fatiche di una vita nomade nella stagione estiva, con i lavori di routine e la cura del bestiame, l’inverno rappresenta il momento di meritato riposo.
I nomadi vivono nelle gher, le tradizionali tende bianche circolari che hanno grandi caratteristiche di mobilità e flessibilità: economiche ed accoglienti, rappresentano un’ottima protezione contro le estreme temperature del deserto del Gobi.
L’ambiente interno mantiene il fresco quando d’estate le temperature superano i 30° e il caldo quando d’inverno precipitano sotto lo zero. 

E’ la casa mongola, un mondo protetto ed autosufficiente, perfetto nella sua semplice forma circolare: la struttura di legno comprende due pali a T centrali che sostengono una piccola calotta forata, per l’uscita del tubo-camino della stufa, su cui poggiano le travi inclinate della copertura che a loro volta scaricano il peso sul graticcio a rombi che ne definisce la parete perimetrale e infine è tutta ricoperta da strati di feltro internamente e da pelli impermeabili esternamente.
Il legno è dipinto di arancione, il colore del sole; i tralicci allungabili delle pareti e la porta, sempre rivolta a sud per evitare i forti venti, con colori brillanti e disegni decorativi; il pavimento può essere di legno, di feltro o di terra nuda, secondo le possibilità economiche dei proprietari.
E’ completamente smontabile e parzialmente ripiegabile su se stessa, facile da trasportare e veloce da rimontare, comoda in estate quando i pastori sono costretti a spostarsi da una parte all’altra per portare gli animali ai pascoli.

Esiste un cerimoniale ben preciso, costituito da una serie di regole di comportamento, per le persone che si apprestano ad entrare dalla porta principale di una gher. Innanzitutto, non si deve bussare sia perché la porta è considerata sacra, sia perché tale gesto indica un’esitazione da parte del viandante, e di conseguenza costituisce un’offesa agli ospiti. Si oltrepassa la soglia con il piede destro, poi ci si saluta all’interno, mai da fuori. Gli uomini entrando si dirigono a sinistra, verso l’ovest e sotto la protezione di Tengger, il grande dio del cielo; le donne a destra, sotto la protezione del Sole.
Anche l’arredamento interno non è disposto casualmente ed è curato e ricco di colori allegri: sul fondo della tenda, di fronte a chi entra, c’è il divano per gli anziani, riservato anche agli ospiti di riguardo; poco più a sinistra un altarino con immagini buddiste, scatoline, foto di famiglia. Vicino alla porta, a sinistra stanno gli immancabili contenitori per il latte, per il tè e le grandi borse rigide di cuoio per l’airag (latte di cavalla fermentato); dall’altro lato gli attrezzi da cucina e il recipiente per l’acqua. Attorno alle pareti due o tre letti; al centro, oltre la stufa, un basso tavolo e minuscoli sgabelli. Tutti i mobili sono in legno con raffinate decorazioni eseguite a mano e sempre coperte di colori allegri.

Se ad un primo impatto questo modello di casa può sembrare spartana e improvvisata, in realtà si scopre come sia il frutto di una tradizione e di una cultura molto antica che dura da qualche secolo e che ha accompagnato e protetto generazioni di famiglie nomadi nel grande deserto dei Gobi. Ancora adesso, pur appartenendo ad un’epoca più moderna, la vita nomade della Mongolia è rimasta fortemente ancorata a tutti i suoi riti e le sue credenze, senza aver subito cambiamenti dall’epoca del famoso Gengis Kahn.

Fotografie di Marco Buemi

 

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