(English translation below)
Per viaggiare a volte basta sedersi. Ma ci vuole un tappeto. Sedersi su un tappeto. Viaggiarci sopra. I sinuosi tappeti non per niente sono diventati volanti, capaci di trasportare gli amanti e i mercanti delle mille e una notte di qua e di là. Oggi e soprattutto in Occidente, abbiano un’idea sbagliata del tappeto: lo vediamo come un suppellettile fisso, che sta sotto il tavolo e si toglie tutt’al più al cambio di stagione, un manufatto poco maneggevole e sedentario. Il vero tappeto non è così, è il terreno da preghiera che il pellegrino si porta dietro, è il pavimento mobile che il nomade pone nella sua tenda, è il viaggio fisico e mentale di chi lo sappia osservare. In questi lunghi mesi di chiusura, il tappeto è il nostro viaggio possibile, ancora di più col freddo di questo inverno, perché il tappeto è anche caldo, è la coperta che ci sta sotto anziché sopra. Basta saperci entrare per poi esplorarlo come un vero e proprio viaggio… 

Ogni tappeto etnico è un cifrario, con simboli noti od oscuri – a volte propri solo di un villaggio – che rappresentano ciò che si può incontrare nei cammini orientali: un villaggio, un cammello, una mandria, una tenda, un corso d’acqua, una montagna, o anche arnesi come forbici e pettini per tosare. Alcuni sono veri giardini delle delizie, con vialetti e stilizzazioni di alberi, fiori e fontane, altri sono l’accoglienza in una famiglia, spesso raffigurata da simboli compatti e dinamici al tempo stesso (come un rombo o un quadrato inclinato), con gli elementi femminili all’interno, motore del nucleo, e quelli maschili all’esterno, in forma di protezione. Altri racchiudono una moschea, con il suo spazio di mediazione rispetto al mondo profano (la cinta del bordo), il minareto, il luogo centrale dove inginocchiarsi e pregare con il giusto orientamento. Molti hanno come disegno l’albero della vita, a volte protagonista in quanto procreazione continua delle nuove generazioni che si succedono a partire dal comune tronco, altre come un piccolo albero tra altri elementi simbolici, quasi a raccontare il fluire delle esistenze in una quotidianità più ampia. Ci sono i tappeti che a mo’ di libro illustrato descrivono episodi storici (ne ho uno che raffigura il bombardamento sovietico di Herat e il miracolo del minareto della Moschea Blu che scampò a ogni missile) e altri che con disegni astratti invitano a un percorso tra effusioni colorate in compagnia di una tazza di tè o di qualcos’altro. 

Tutto sta a non calpestare il tappeto, ma a osservarlo, e quindi a viaggiarci: ogni nodo è il frutto di una manualità specifica, un gesto dedicato, e in un tappeto di medie dimensioni i nodi sono a milioni. Una delle cose più stupefacenti che mi sia capitato vedere è la recita da parte di un vecchio signore di una litania apparentemente incomprensibile, seduto accanto a due donne al telaio: dettava loro la sequenza dei fili da annodare, secondo un disegno prestabilito che conosceva a memoria e che ogni tanto variava secondo l’estro del momento ma sempre secondo una visione precisa e d’insieme. Quell’uomo stava recitando un rosario e al tempo stesso ne vedeva la conseguenza, immaginando in anticipo la conseguenza del suo dettato: di fatto, viaggiava attraverso la sua propria creazione. E quelle tre persone, che lavoravano all’aperto vicino a Kunduz in Afghanistan, hanno cambiato di colpo il mio modo di vedere un tappeto: un luogo e non un oggetto, una magia e non un banale suppellettile, e un viaggio di lana, di voci, di mani.  

Basta allora sedersi su un tappeto, sempre soffice quanto basta e duro quel che serve, caldo d’inverno, fresco d’estate (in Iran o sull’altana veneziana si dorme all’aria aperta su un tappeto), e lasciarsi condurre dai suoi segni – altrettanti paesaggi lontani eppure sotto di noi, una lontananza che ci sostiene. 

Come in tutti i viaggi, anche in questo caso occorre una certa responsabilità, perché il mondo del tappeto è molto più concreto di quanto le sue fantasmagorie inducono a credere. È anche mondo con giri di affari vorticosi e con sfruttamenti – le piccole mani delle bambine, che in certi laboratori oscuri finiscono col perdere quasi la vista, le paghe miserrime, la produzione semi-industriale che sciupa tutto. 

Ecco allora tre indirizzi per viaggiare lontano o vicinissimo, con equità e per tutte le tasche. 1. Rumi Afghan Rugs, per tappeti afghani, fatti a mano e opera di donne pagate circa tre volte il salario medio, grazie alla vendita diretta. E con una scelta che va dalle creazioni nomadi al design contemporaneo.  2. Ikea tappeti fatti a mano, con la provocazione dei tappeti di Ikea, prodotti in condizioni protette in Bangladesh e India ma con nomi sempre così incorreggibilmente astrusi da confondere la bussola del viaggiatore: Hjorthede, Tårbäk, Köpenhamn… 3. Stazione dell’arte, sito del museo di Ulassai dedicato a Maria Lai. 

Maria Lai chiude tutto: questa piccola e granitica donna sarda, ha reinterpretato il tappeto coniugandolo con l’avanguardia e l’intimità, ne ha sciolto i fili rendendoli tracce di collegamento tra le finestre del suo paese, ha letteralmente tracciato vere vie alpine sulla roccia come trame di tessitura, ha scritto con i simboli dei tappeti popolari, ha volato e fa ancora volare con le sue creazioni, anche trasformando libri in tappeti e viceversa.

Perché un tappeto è un oggetto di antiquariato, un prodotto di massa, un esotico trofeo di viaggio, un’installazione d’arte come le bandiere di Alighiero Boetti, corrispondenza della globalizzazione alla trama della tribù nomade. Boetti: un altro che come Maria Lai o l’anonimo afghano al telaio, ha voluto spiegare quanto il tappeto sia, né più né meno, la nostra geografia

ENGLISH VERSION

Travelling at home by carpets: 3 addresses to travel on and within this small mobile floor

Sometimes in order to travel, you just need to sit down. But you need a carpet. Sit on a carpet. Travel on it. It is not for nothing that the sinuous carpets have become “flying”, capable of carrying lovers and merchants of the thousand and one nights here and there. Today, and especially in the West, we often have a wrong idea about a carpet: we see it as a fixed piece of furniture, which is under the table and is removed at most at the change of season, an unwieldy and sedentary object. The real carpet is not like that, but rather a prayer ground that the pilgrim brings with him, a mobile floor that the nomad places in his tent, the physical and mental journey of those who know how to observe it. In these long months of lockdown, the carpet is our possible journey, even more so with the cold of this winter, because the carpet is also warm, it is the blanket that lays under us rather than covering us. However, one needs knowing how to enter it and then exploring it as a real journey.

Each ethnic carpet has a code, with known or obscure symbols – sometimes specific only to a village – which represent what can be encountered in the oriental landscapes: a village, a camel, a herd, a tent, a stream, a mountain, or even tools such as scissors and combs for shearing. Some are true gardens of delights, with paths and stylizations of trees, flowers and fountains; others welcome in a family, often represented by symbols that are compact and dynamic at the same time (such as a rhombus or inclined squares), with the elements female on the inside, motor of the community, and male on the outside, positioned to protect. Other carpets enclose a mosque, with its boundary to mediate between the profane and the holy space, the minaret, the central place to kneel and pray with the right orientation. Many have as their design the tree of life, sometimes as main picture of the carpet and symbolising the continuous procreation of new generations that following one another and starting from the common trunk, and other times as a small tree among other symbolic elements, almost to underline the flow of existences in a more everyday life. wide. There are carpets that, like an illustrated book, describe historical episodes (I have one that depicts the Soviet bombing of Herat and the miracle of the Blue Mosque minaret that escaped every missile) and others that with abstract designs invite you to a path surrounded by colourful effusions in the company of a cup of tea or something else.

The essential is about not “stepping on” the carpet, but observing it: each knot is the result of a specific manual skill, a dedicated gesture, and in a medium-sized rug there are millions of knots. One of the most amazing things that I happened to see is the recitation by an old man of a seemingly incomprehensible litany. Seated next to two women, this man dictated to them the sequence of the threads to tie, according to a pre-established design that he, and only him, knew by heart and that from time to time he varied according to the inspiration of the moment but always following a precise and overall vision. This man was speaking and at the same time imagining in front of us the outcome of his instructions, he was actually travelling through his own creation. And with his two female colleagues, those three people, who worked outdoors near Kunduz in Afghanistan, suddenly changed my way of seeing a carpet: a place and not an object, a magic thing and not a trivial piece of furniture, and a journey of wool, of voices, of hands. Just sit on a carpet, always soft enough and hard enough, warm in winter, cool in summer (in Iran or on the Venetian roof terrace you may sleep in the open air laying on a carpet), and let yourself be led by the carpet signs. Each of them is a feature of the landscape that sustains us. 

As in all travels, also in this case a certain responsibility is required, because the world of the carpet is much more concrete than its phantasmagoria could make us to believe. It is also a world with whirlwind turnover and exploitation – the little hands of girls, who in certain dark workshops end up almost losing sight, poor wages, semi-industrial production that spoils everything. So here are three addresses to travel in a fair way, far or very close, and for all budgets. 1. https://rumiafghanrugs.com, for Afghan hand-made rugs, created by women paid about three times the average wage, thanks to direct sales. And with a choice that ranges from nomadic creations to contemporary design. 2. https://www.ikea.com/it/it/cat/tappeti-fatti-a-mano-39267/, with the provocation of the Ikea carpets, produced under protected conditions in Bangladesh and India but with names always incorrigibly abstruse, so to confuse the traveler’s compass: “Hjorthede”, Tårbäk, Köpenhamn… 3. http://www.stazionedellarte.com, website of the Ulassai museum dedicated to Maria Lai. 

Maria Lai concludes the whole carpet issue: this small and solid Sardinian woman has reinterpreted the carpet with avant-garde and intimacy, she has dissolved the threads making them traces of connection between the windows of her village, she literally traced real alpine routes on the rock as weaving textures, she wrote with the symbols of popular carpets, she flew and still makes fly with his creations, also by transforming books in carpets and the other way around. 

Because a carpet is an antique object and also a mass product, an exotic travel trophy and an art installation. Like Alighiero Boetti’s flags, those being the correspondence of globalization to the local symbols of the nomadic tribe. Boetti: another who, like Maria Lai or the anonymous Afghan on the loom, wanted to explain how much the carpet is, neither more nor less, our vast and limited geography. 

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