Ho chiuso il libro, solo poche ore fa, lo riapro, per l’urgenza di scrivere sulla scrittura. E parlare di me, di noi donne.
La scrittura diventa corpo condiviso, urlo collettivo, tela inedita di colori nuovi su parole antiche in questo libro della Petrignani.
E dove le parole di un libro non sono più sue, mie, loro, ma nostre? Esiste una scrittura femminile, dove la libertà negata prende corpo, dove le parole altre diventano nostre?
E’ questo corsivo comune, questa voce plurale, questa stanza che smette di essere segreta che Sandra Petrignani cerca e trova nel Lessico Femminile di Virginia Woolf, Marguerite Duras, Elsa Morante, Sylvia Plath, Anna Maria Ortese, Dacia Maraini, Nina Berberova, Karen Blixen, Marguerite Yuorcenar, Hannah Arendt, e tante altre grandi scrittrici. Nel Lessico Femminile di ognuna di loro che diventa il suo, il nostro, in un abbraccio ampio, ricco di quella libertà nient’affatto scontata e non di rado dolorosa nella vita di una donna, a volte conquistata a fatica e non sempre apprezzata proprio da noi donne, come fosse sinonimo di solitudine e fallimento.

Fin dal prologo ci troviamo di fronte a una dichiarazione di appartenenza, attraverso case vissute e raccontate, cose insignificanti che diventano rivelazioni, amori inventati che trasudano realtà, relazioni pericolose che uccidono, incontrando LEI, che è altro da sé se è con e per Lui o con un’altra LEI o ancora con e per sé stessa, quando finalmente riuscirà a vedersi, dentro le verità da dire, il tempo, le solitudini e il finale di partita.
Un unico variegato canto, le cui note sono i libri presi l’uno dopo l’altro da una libreria che sembra un pianoforte di parole, il cui suono è insieme nostro e di nessuno: il corsivo della Berberova, la prima delle voci, diventa nostro, che “amiamo noi stesse, ma fino ad un certo punto”, perché ognuna di noi sa che quando una donna sale su un piedistallo, prevale la paura di vacillare; e allora il canto collettivo è necessario, diventa forza e la parola si trasforma in presenza.
E’ un preludio di senso, il canto della Berberova: “Ho amato e amo la vita, e non meno della vita (e neanche di più) amo il suo significato. Il suo senso è in se stessa e in me che sono ancora viva”.

E il canto si apre ad una rilettura del mondo che è il punto di vista di noi donne, inclini alla concretezza e al dettaglio, a resistere vive oltre la perdita e il dolore, testimoniando il corsivo della nostra esperienza, nella consapevolezza urgente che l’importante è esserci.
Così la nostra voce s’erge e il canto polifonico diventa forza che sa riconoscere il bandolo della matassa, il filo che ci unisce e ci conduce verso il senso e la consapevolezza: così il destino della nostra scrittura, la scrittura al femminile che tanto racconta perché tanto vede, si dipana tra le pieghe dell’esistenza, e sa.
Poco importa se il nostro canto troppo spesso è rimasto inascoltato, le nostre parole cancellate, le nostre tele lacerate, la nostra grandezza misconosciuta: continuiamo a chiamarci Artemisia, Ipazia, Saffo, portiamo fiere i nomi di Marina Cvetaeva e Virginia Woolf, di Agota Kristof e di Anita di Tegea, di Magda Zsabò e Wislawa Szymborska, di Assiotea di Fliunte e Hannah Arendt, attraversiamo con loro deserti luoghi e città di K., siamo pronte per gite al faro e paesaggi arcadici, sostiamo dietro porte chiuse e ci immergiamo nella meraviglia delle piccole cose, ci fasciamo i seni con strisce di cuoio e ci tagliamo i lunghi capelli neri, riconosciamo la banalità del male, pur di esserci e gridarlo al mondo.

La scrittura è uno dei più importanti sistemi simbolici a nostra disposizione, uno strumento privilegiato per la costruzione della soggettività individuale e collettiva e in primo luogo dell’identità di genere. La lingua non ha più solo la funzione di rispecchiare i valori, ma anche quella di concorrere a modificarli e determinarli, reca in sé la sedimentazione di tutti i significati individuali e collettivi attribuiti alle parole nel corso del tempo, ma è anche un deposito di tutti gli elementi: giudizi di valore, fantasie, emozioni, affetti, paure, desideri, speranze, idee e comportamenti.
E la scrittura femminile è lo specchio del bipolarismo di genere che ci ha confinato in un luogo altro, un luogo che diventa il bandolo della matassa del nostro dirci e riconoscerci, in un racconto lungo secoli che è diventato voce e si è trasformato in canto, capace di abbattere la falsa neutralità del maschile, che spaccia per umano ciò che è solo dell’uomo. E s’erge, in tutta la sua grandezza, senza perdere la propria identità, ma oltrepassando ogni stereotipo di genere, per citare la sociologa Priulla.
Gli uomini, l’alterità che ci ha inchiodate nel ruolo dell’Altro, perché “l’umanità che dà la linea al mondo è perlopiù di genere maschile”, sono termini di paragone e oggetti d’amori struggenti, germi di “lui-te”, quella che per Grace Paley è “la terribile malattia delle femmine” e che per Simone Weil trasforma in vampiri: “Amiamo qualcuno, cioè amiamo bere il suo sangue”, la stessa malattia che finisce per incuterci paura della libertà, nella radicata convinzione inflittaci da secoli che il riconoscimento del nostro esserci passi solo dal riconoscimento che ci viene concesso dall’alterità maschile, e che spesso non riguarda la nostra essenza, il nostro talento, la nostra scrittura, la nostra tela e il nostro pensiero, ma il nostro essere amante, madre, compagna, figlia, regina della casa e del pettegolezzo.

Donne troppo spesso schiacciate dal senso di colpa per non essere mai veramente all’altezza, donne che amano troppo, insomma, che vogliono l’amore di un uomo e i loro baci, capaci di “render loro la vita facendole dimenticare la vita”, per dirla con Marguerite Duras.
E lo sa bene Elena Ferrante nell’amore molesto di una madre amata e odiata, Hannah Arendt, il cui genio passa la vita a cercare il riconoscimento di Martin Heidegger, o la scrittrice Sei Shonagon, che con le sue Note del guanciale, è riuscita nell’anno 1000 a divenire la regina delle cose di poco conto.

La scrittura femminile allora diventa il nostro riscatto corale quando, per dirla con Jamaica Kincaid, diventiamo capaci di “dire le cose a modo nostro, le cose che stanno dentro la nostra testa, le cose come le vediamo nella loro a volte terribile autenticità”, quando scrivere, che pure è altro dalla realtà, diventa verità. “Quando scrivo non mento”, ricorda Clarice Lispector nel suo “Ora delle stelle”.
La scrittura diventa un viatico verso il sapere dell’anima e la sua liberazione, e in questo caso della nostra anima femminile. Solo alla fine del bandolo di questa matassa, c’è il tempo: il nostro tempo che diventa tempo che scorre, con l’asprezza della vecchiaia e la consapevolezza amara di Simone de Beauvoir: “La donna subisce fino alla fine la sua condizione di oggetto erotico. La castità non le è imposta da un destino fisiologico ma dalla condizione di creatura relativa”. Una condizione che ci fa stirpe abituata a cadere ogni tanto in un pozzo buio e profondo, descritto molto bene da Natalia Ginzburg,“lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla”. Risaliamo dal pozzo con una fune fatta di parole, le stesse che usa Dacia Maraini nel suo ‘Dolce per sé’: “Noi appariamo agli altri con una sola immagine, limitativa e parziale. Mentre nel nostro corpo le nostre età convivono senza ordine, la bambina con l’anziana, il giovanetto con l’uomo maturo. Siamo una folla, e un solo nome ci sta stretto”.

Un solo nome equivale ad una sola vita, una sola vita ad una sola prospettiva, ad un’unica visione: ma Sandra Petrignani nel finale di partita del suo libro ci ricorda che gli occhi delle donne rifiutano la cecità, lasciano aperte visioni e spiragli anche nel dolore, cercano domande e le pongono, vogliono un corsivo proprio e la libertà di esprimerlo, un corsivo che in questo libro è capace di diventare nostro attraverso la voce di tante di noi, come se avessimo scritto tutte assieme il suo, il nostro, senso.
Buona lettura

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