Israele e l’invenzione del “veganwashing”. Il lavoro della associazione Palestinian Animal League
Le contraddizioni del veganwashing e il lavoro dell'associazione Palestinian Animal League in supporto a animali e umani palestinesi.
Le contraddizioni del veganwashing e il lavoro dell'associazione Palestinian Animal League in supporto a animali e umani palestinesi.
Nel 2018, l’esercito israeliano annuncia di aver garantito il diritto dei suoi soldati vegan a utilizzare scarpe e indumenti senza pelle o lana. Negli ultimi anni, Israele ha vantato la maggior percentuale al mondo di militari vegan (cinquantamila, a quanto pare), ostentando i suoi servizi di mensa inclusivi.
Si tratta di uno Stato che si è autodefinito paradiso vegan, con una città come Tel Aviv capitale mondiale vegana. La promozione del turismo israeliano insiste molto su questo aspetto e, non a caso, anche sulla tolleranza delle minoranze LGBTQI. A uno sguardo superficiale, sembra che stiamo parlando di un oasi di pace in cui si coltivano valori di tolleranza e non violenza.
Eppure, sembra che questo sguardo sia davvero molto superficiale. Non può non saltare all’occhio la contraddizione fra il rispetto di chi non vuole nuocere ai soggetti non umani e il mandato che questi militari animalisti portano a termine: sparare sulla popolazione palestinese per depredarla delle terre e dei diritti minimi. Senza risparmiare i civili, gli ospedali, le case, le scuole, come abbiamo potuto drammaticamente constatare nelle ultime settimane. E allora mi sorge una domanda spontanea. Come è possibile che l’esercito che stermina il popolo palestinese si presenti come il più etico del mondo?
A tal proposito, alcuni critici e alcune associazioni hanno parlato apertamente di “veganwashing”. Che cos’è il veganwashing? Questo termine è costruito sul calco di termini come greenwashing o pinkwashing.
Il greenwashing è sostanzialmente una forma di marketing: un’azienda o un’istituzione ostenta sensibilità rispetto alle questioni ambientali, per esempio dichiarando di produrre merci sostenibili o di adottare metodologie di lavorazione ecologiche. In questo modo, getta una cortina fumogena sulle proprie reali politiche, che guarda caso sono ad alto impatto ambientale, o comunque problematiche per altri motivi.
Similmente, il pinkwashing è una strategia con cui un’azienda dal profilo poco etico riesce a sbiancare la propria facciata presentandosi come una realtà inclusiva nei confronti di lavoratrici e lavoratori gay (nella versione ancora più inclusiva, rainbow washing.
Non mi ha sorpreso scoprire che Israele è la nazione che ha inventato il pinkwashing, proprio a partire dall’esercito: ha varato e pubblicizzato l’apertura ai soldati gay, suggerendo una superiorità culturale rispetto al mondo arabo, velatamente tacciato di omofobia. In estrema sintesi, potremmo dire che se sei gay e sei israelianə (e magari fervente nazionalista) verrai accolto a braccia aperte; se sei palestinese, che tu sia etero o sia gay, verrai bombardatə in modo democratico e paritario.
A questo quadretto possiamo ora aggiungere il fatto che l’esercito ti accoglierà con piacere anche se rifiuti di cibarti di animali uccisi, purché tu non abbia problemi a sparare su migliaia di animali umani a Gaza. E purché tu non abbia problemi a sostenere incondizionatamente i bombardamenti che – in modo molto poco vegan, a dire la verità – fanno innumerevoli vittime anche fra cani, gatti e animali di ogni specie. Veganwashing: occultare una facciata di violenza che colpisce umani e animali dietro l’inclusività alimentare, dietro un’immagine vegan friendly.
Per smascherare questo tipo di operazioni retoriche, vorrei invitare ad ascoltare e sostenere una realtà che fa un lavoro prezioso, al tempo stesso di supporto agli animali e alla popolazione umana palestinese: la Palestinian Animal League.
Che cosa si cela, secondo PAL, dietro questa narrazione? Come è possibile che l’esercito che stermina il popolo palestinese si presenti come il più etico del mondo? Come abbiamo visto, si cela innanzitutto una violenza di Stato che assume in modo ormai evidente i caratteri del genocidio.
Una politica che, a dirla tutta, mi pare in aperta contraddizione con la stessa pratica vegan, pratica che dovrebbe obbedire a principi di uguaglianza e di rifiuto della prevaricazione sul più debole. Come ha notato l’attivista della Palestinian Animal League Grazia Parolari,
“Ai palestinesi non cambia nulla essere presi a calci da scarponi di pelle o da scarponi di finta pelle”.
E si cela persino una politica di sterminio degli animali non umani che vivono nei territori attaccati dall’esercito israeliano: mi sono chiesto, talvolta, se non esista un veganismo sionista che distingue fra animali israeliani e animali palestinesi…
Nel frattempo, sono le persone bombardate a occuparsi delle vittime non umane, come i propri gatti, a cercarli fra le macerie, secondo il principio per cui in una famiglia non si deve lasciare indietro nessuno. Come riportato poche settimane fa da Nurah Tape di Palestine Chronicle:
“Il cibo scarseggia a Gaza, ma qualcosa viene sempre messo da parte per gli animali domestici”.
E c’è dell’altro. Se grattiamo la superficie di questo dispositivo retorico in cui pinkwashing e veganwashing agiscono in sinergia, l’immagine di una nazione contraddistinta da valori etici che abbracciano l’intero creato evidenzia enormi contraddizioni.
Per esempio, la percentuale delle persone vegan in questo paradiso degli animali è la metà di quella palestinese, alla faccia di uno stereotipo che suggerisce una certa arretratezza dei popoli arabi in tema di diritti animali. Nonostante le sue numerose start-up che producono carne coltivata e le brochure per turistə vegan, Israele è il terzo paese al mondo per consumo di carne e la sperimentazione su animali è in continua crescita. Persino gli elementi che costituiscono l’ossatura del veganwashing israeliano sono criticabili, se pensiamo che le pietanze che impreziosiscono l’offerta vegana per il turismo occidentale non sono altro che il frutto di una subdola appropriazione culturale: hummus, falafel, foglie di vite ripiena, e altri piatti delle popolazioni espulse dai territori.
Come è possibile che l’esercito che stermina il popolo palestinese si presenti come il più etico del mondo? E come è possibile che lo faccia, talvolta, con il consenso di un certo animalismo un po’ qualunquista che plaude al veganismo consumista e ipocrita di Israele?
Come minimo, non dovremmo permettere all’esercito israeliano – e a nessun esercito – di presentarsi per quello che non è: un’agenzia di pace, di promozione del rispetto dei più deboli o un alfiere dell’inclusività. Per questo, occorre restituire al veganismo il valore di pratica concreta di solidarietà con i soggetti oppressi, una solidarietà che si fa più ampia di quanto tradizionalmente ammesso dai nostri ideali di uguaglianza del tutto interni all’antropocentrismo, per sconfinare oltre le barriere di specie.
Vorrei accogliere l’esortazione di Grazia Parolari a
“decolonizzare il veganismo”,
dialogando con le numerose voci palestinesi che promuovono l’alimentazione etica e modalità di relazione non violente con gli animali non umani, persino quando l’urgenza è quella di non soccombere a un attacco militare sanguinario.
Fra queste voci, una delle più preziose e autorevoli, è proprio la Palestinian Animal League, un’associazione da sostenere per il lavoro critico e sul campo, un lavoro che mette in pratica in modo molto concreto l’idea di un antispecismo intersezionale, in cui liberazione animale e liberazione umana sono strettamente collegate.