Nel febbraio del 1970 usciva nelle sale italiane L’uccello dalle piume di cristallo, il primo film di Dario Argento. Il lungometraggio del cineasta romano è stato restaurato dalla Cineteca di Bologna nel 2017 all’interno del progetto L’immagine ritrovata.
Questa fine estate, disorientante e pregna di inquietanti quesiti circa il futuro, ci pare offrire il perfetto clima per (ri)vederlo.
La sinossi del film (identica a Profondo Rosso) vede il protagonista, lo scrittore italo americano Sam Dalmas (Tony Musante), assistere ad un tentato omicidio in una galleria d’arte. L’ossessione di aver omesso, scordato qualche particolare di quel fatto, suscita in lui la volontà di continuare personalmente le indagini per scoprire l’assassino.
La tecnica del classico Whodunit (contrazione dell’inglese Who has done it? Chi l’ha fatto?) innesta nello spettatore la voglia di immedesimarsi nel protagonista per cogliere gli indizi utili alla scoperta del colpevole. Argento oltre a creare la suspense perfetta offre allo spettatore la sua visione sadica e con ancora una dose moderata di Grand Guignol, creando un stile personale e ineguagliabile. La scena iniziale scopre un giovane cineasta curioso e onnivoro che ama tutti i generi cinematografici, prediligendo allo stesso modo i film minori e, per esempio, la Nouvelle Vague. Ricordiamoci che prima di collocarsi dietro la macchina da presa il futuro maestro del brivido lavorava come critico cinematografico. Analizzando da vicino la scena del tentato omicidio scopriamo un ottimo uso del carrello e della plongée, per evidenziare la solitudine della vittima, e il campo/controcampo molto rapido.
Le capacità tecniche sono già presenti, come ricorda anche il critico Paolo Mereghetti nel suo Dizionario dei Film :«…Argento dimostra grande capacità tecnica con notevoli intuizioni (i fermo immagine dei ricordi, il dolly sulle case in pre-finale, gli intrecci degli aerei prima dei titoli di coda)».
L’altra grande intuizione è la scelta dei luoghi in cui ambientare la pellicola, la Roma che viene proposta è inedita, particolare, c’è una volontà precisa nel descrivere la città eterna senza presentare la sua monumentalità ma scovando location apparentemente anonime ma in realtà dotate di una loro intensa carica drammatica (il quartiere dell’Eur, lo Zoo, il parco di Villa Paganini, il quartiere di Trastevere ecc.).
La fotografia è curata sapientemente da un giovane Vittorio Storaro e la colonna sonora è di Ennio Morricone che qui, con il suo ensemble, sperimenta, in alcuni momenti, improvvisazioni quasi jazzistiche.
La visione personale di Argento sviluppa una serie di figure costanti nella sua filmografia, inedite nel giallo italiano dell’epoca, come ad esempio la caratterizzazione dell’assassino ripreso con il cappello e il trench nero di pelle e con i relativi guanti (lo ritroveremo anche in Profondo Rosso).
In definitiva l’autore costruisce un immaginario che verrà ripreso e usato da altri registi. Lo stile inconfondibile è qui già presente ed è proprio ciò che caratterizza un cineasta: la capacità di fondare un propria visione esclusiva, unica, sfruttando i propri tormenti, proprio perché la settima arte si fonda su un’ossessione personale e sull’iconoclastia, come ci ricorda Enrico Ghezzi: «Eppure non si può non essere iconoclasti. Specialmente se si è della razza che farebbe cinema anche con gli specchietti retrovisori, o anche senza specchietti, semplicemente viaggiando in moto o attraversando la città». La pellicola è disponibile su diverse piattaforme tra le quali segnaliamo RaiPlay e Amazon Prime Video.