Il teatro, arte antichissima, è arrivato in un’epoca in cui le menti e i sensi sono rimodellati ogni giorno dall’uso dei mezzi digitali. Ovvio che anche il teatro ne senta l’impatto, e in qualche modo lo tema: ma è davvero destinato a scomparire, o a sopravvivere solo assimilandosi a sua volta alle modalità digitali? Ne ragioniamo insieme a Stefano Giorgi, che da attore conosce e rispetta la forza originaria dell’espressione teatrale.

Il teatro è in crisi?

Che il teatro sia in crisi di pubblico è in parte un luogo comune, ma non privo di fondamento. In particolare soffre di una frattura generazionale tra gli attuali aficionados – per lo più di età matura – e i nativi digitali, abituati alla fruizione individuale del prodotto-performance, che quando frequentano un teatro si aspettano qualcosa di simile all’esperienza familiare dello scrolling, del sovraccarico visivo, dell’interattività spinta.

Così assistiamo a regie innovative che riempiono il palco di schermi o usano in maniera ripetitiva la rottura della quarta parete, quasi a voler imitare l’intrattenimento televisivo. In questa ibridazione tra forme espressive diverse rischia di scomparire quello che per Stefano è il vero quid del teatro: raccontare una storia attraverso la presenza fisica, senza reclamare l’attenzione ma conquistandola con la sola forza dell’azione che si svolge sul palco. Un premio Nobel come Jon Fosse, drammaturgo, usa mezzi squisitamente teatrali come la ripetizione, lo straniamento, l’assurdo per ottenere un linguaggio potentemente contemporaneo.

È giusto cambiare e sperimentare, conclude Stefano, ma occorre anche il coraggio di servirsi di un’espressione artistica per quelle che sono la sua natura e la sua forza. Un validissimo discorso critico su come il digitale modifica le nostre percezioni lo offre la videoarte, mentre intorno al cinema si sviluppano apparati di fruizione che non hanno più nulla a che fare con il grande schermo e il buio in sala. Forse il teatro, più di tutti, ha il compito di tenere la mente umana allenata su facoltà antiche e preziose – la concentrazione, l’ascolto, la partecipazione intima anziché esibita – che altrimenti rischiano di atrofizzarsi.

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