Piccole e invisibili, le microplastiche sono tra i principali nemici della nostra salute e quella del Pianeta. Le cifre parlano chiaro: ogni anno produciamo circa 300 milioni di tonnellate di rifiuti plastici, gran parte dei quali finisce nell’ambiente anziché essere riciclata. Non stupisce quindi il fatto che tutta la plastica prodotta fino ad oggi, a partire dalla sua invenzione, continua a inquinare l’ambiente, infiltrandosi ovunque e compromettendo la salute degli ecosistemi e degli esseri umani.

Ma cos’è esattamente la plastica? Si tratta di un insieme di materiali sintetici caratterizzati dalla loro plasticità, ovvero dalla capacità di assumere forme diverse senza danneggiarsi. Questa peculiarità, insieme al basso costo di produzione, l’ha resa uno dei materiali più utilizzati al mondo. La sua storia inizia nel XIX secolo, con l’invenzione della celluloide e del PVC. Negli anni ’30, l’introduzione di materiali come il nylon ha portato a una diffusione capillare della plastica, sostituendo materiali tradizionali come vetro e metallo, soprattutto per gli imballaggi.

Tuttavia, sebbene la plastica sia indubbiamente molto utile, c’è un problema: impiega secoli per degradarsi, accumulandosi così nei mari, nei fiumi e nel terreno. Oltre a questo, durante la fase di decomposizione, la plastica può rilasciare sostanze tossiche, come ftalati e bisfenolo A, noti per causare disturbi endocrini e cancro.

Frammenti di plastica: una classificazione

Nonostante la plastica sia un materiale notevolmente resistente, se esposta costantemente ad agenti degradanti (umidità, calore), può frammentarsi in pezzi sempre più piccoli.

A seconda delle dimensioni che assumono, è possibile distinguere 4 tipi di frammenti:

  1. Le macroplastiche: sono i frammenti di plastica più grandi, generalmente superiori a 25 millimetri. Si formano da bottiglie, sacchetti, reti da pesca, giocattoli e altri oggetti di uso quotidiano che possono entrare nell’ambiente attraverso lo smaltimento improprio dei rifiuti, il littering e le perdite accidentali durante le fasi di trasporto.
  2. Le mesoplastiche: frammenti di dimensioni comprese tra 5 e 25 millimetri che derivano principalmente dalla frammentazione delle microplastiche attraverso processi fisici come l’azione delle onde, l’abrasione meccanica e l’esposizione alla luce solare. Esempi di mesoplastiche includono pezzi di bottiglie, tappi e frammenti di imballaggi.
  3. Le microplastiche sono particelle di plastica di dimensioni inferiori a 5 millimetri che, in base al loro meccanismo di formazione, sono generalmente classificabili in due categorie: microplastiche primarie e microplastiche secondarie. Le microplastiche primarie sono delle microsfere prodotte appositamente per usi industriali, per esempio in ambito cosmetico sono impiegate nei prodotti per la cura personale come gli scrub viso e corpo per conferire al prodotto delle caratteristiche esfolianti. Le microplastiche secondarie, invece, derivano dalla frammentazione di plastiche più grandi attraverso processi di degradazione fisica, chimica e biologica. Un esempio sono i granuli di polistirolo e le fibre sintetiche rilasciate dai tessuti durante il lavaggio.
  4. La corrosione e l’erosione di questi frammenti termina infine con le nanoplastiche, particelle con dimensioni inferiori a 100 nanometri, quindi invisibili ad occhio nudo. A causa delle loro dimensioni ridotte, la maggior parte degli studi sugli ambienti naturali tende ad ignorarle e a concentrarsi sulle particelle di dimensioni maggiori. Queste ultime in particolare rappresentano un’enorme minaccia in quanto le loro dimensioni gli consentono di interagire a livello molecolare con organismi viventi, penetrando persino nelle cellule e causando potenziali effetti tossici.

Microplastiche nel suolo

La presenza delle microplastiche nell’ambiente è ormai data per assodata. Si trova ovunque, dal suolo, all’acqua, fino all’aria che respiriamo.

Per esempio, nel 2022 l’UNEP (United Nation Environment Programme) ha pubblicato un rapporto in cui sono illustrati gli effetti dell’accumulo della plastica nel suolo utilizzata in agricoltura e le possibili soluzioni da attuare per mitigare questa emergenza ambientale. Nel testo viene evidenziato l’uso eccessivo di plastica in agricoltura e come questo possa causare una forma di inquinamento che impatta non solo il suolo, ma anche la biodiversità, la fertilità e la sicurezza alimentare. Per esempio, si spiega che la plastica viene utilizzata in agricoltura per diverse pratiche come la pacciamatura, la copertura delle serre, gli insilati per la conservazione del foraggio ecc… In questi casi, la plastica si frammenta in particelle di diverse dimensioni e penetra nel terreno.

Microplastiche nell’aria

La presenza di microplastiche nell’aria è stata rilevata in molteplici studi condotti in varie parti del mondo, dalle grandi città alle remote regioni montane. Uno studio pubblicato recentemente su Science Advances ha evidenziato che le microplastiche nell’aria possono viaggiare per migliaia di chilometri, attraversando continenti e oceani, trasportando inquinanti e metalli pesanti con cui entrano in contatto.

A differenza del suolo, le microplastiche nell’aria non si accumulano in quanto vengono trasportate su distanze variabili a seconda del loro peso: se quelle più grandi si depositeranno nelle immediate vicinanze, quelle più piccole saranno in grado di raggiungere aree più distanti e isolate. Negli ambienti esterni la principale fonte di microplastiche nell’aria è dovuta al traffico stradale e in particolare all’abrasione degli pneumatici, vernici e materiali edilizi. Per quanto riguarda gli ambienti interni, invece, le principali fonti sono le fibre sintetiche rilasciate da vestiti, tende, tappeti e mobili.

Microplastiche nell’acqua

Fino agli anni ‘70, quando entrò in vigore la Convenzione di Londra che vietava lo smaltimento dei rifiuti pericolosi in mare, si pensava che le acque del nostro pianeta fossero in grado di smaltire qualsiasi rifiuto che vi veniva gettato, dalle scorie chimiche a quelle industriali e radioattive. In realtà, queste sostanze, oltre a non scomparire, inquinavano e contaminavano gli ambienti acquatici con conseguenze per la flora e la fauna che permangono ancora oggi.

Nel corso degli ultimi anni il tema dell’inquinamento degli oceani ha acquistato una certa risonanza in quanto si è compresa l’entità delle ripercussioni che possono scaturire. Per esempio, si è visto come le microplastiche abbiano degli effetti devastanti sugli ecosistemi marini: gli organismi acquatici come i pesci e i molluschi ingeriscono queste particelle che a loro volta si accumulano nei tessuti causando danni fisiologici e tossici.

La presenza di plastiche e microplastiche in mare porta alla formazione delle isole di plastica, vasti accumuli di detriti che si formano a causa dell’azione combinata di correnti e venti.

Attualmente, si conoscono 6 plastic vortex:

  1. Great Pacific Garbage Patch: situata tra le Hawaii e la California, è l’isola di plastica più grande al mondo con una superficie di 1.6 milioni di chilometri quadrati, tre volte la superficie della Francia, e 2.41 milioni di tonnellate di rifiuti plastici;
  2. South Pacific Garbage Patch: situata al largo delle coste del Cile e del Perù;
  3. North Atlantic Garbage Patch: situata tra le Bermuda e le Azzorre, è una delle più antiche zone di accumulo di rifiuti marini;
  4. South Atlantic Garbage Patch: situata al largo delle coste dell’Argentina e del Brasile;
  5. Indian Ocean Garbage Patch: situata tra l’Africa meridionale e l’Australia occidentale;
  6. Arctic Garbage Patch: situata nel mare di Barents, in prossimità del circolo polare artico, è l’isola di plastica più piccola e quella rinvenuta più recentemente.

Microplastiche e corpo umano

La crescente attenzione all’inquinamento da plastica ha evidenziato un problema meno visibile ma altrettanto insidioso: la presenza di microplastiche all’interno del corpo umano. Diversi studi hanno rilevato frammenti di microplastiche in varie parti dell’organismo, sollevando preoccupazioni riguardo alla salute.

Un esempio rilevante è rappresentato da una ricerca condotta dalla Hull York Medical School e dall’Università di Hull, che ha dimostrato la presenza di microplastiche nelle cellule umane, con effetti dannosi. Il team, guidato da Evangelos Danopoulos, ha esaminato studi precedenti che analizzavano la contaminazione da microplastiche in acqua potabile, frutti di mare e sale da cucina, evidenziando che un’elevata esposizione può portare alla morte cellulare e a reazioni allergiche.

Lo studio ha indagato cinque categorie di effetti tossicologici: citotossicità, risposte immunitarie, danni alle membrane cellulari, stress ossidativo e genotossicità. È emerso che la pericolosità delle microplastiche varia a seconda della loro forma: le particelle irregolari, più comuni nell’ambiente, risultano più dannose rispetto a quelle sferiche. Di conseguenza, Danopoulos suggerisce che le future ricerche si concentrino maggiormente su questi frammenti dalle forme irregolari per valutare meglio i loro effetti.

Cuore, polmoni e cervello: i rischi per la salute

Anche la presenza di microplastiche nel sangue desta preoccupazione. Il primo studio in merito, condotto ad Amsterdam dalla Vrije Universiteit, ha rilevato microplastiche nel sangue di 17 volontari su 22, ossia il 77% del campione. Tra le particelle identificate vi erano polietilene tereftalato (PET) e polistirene (PS), comunemente utilizzati per imballaggi e bottiglie di plastica. Le dimensioni dei frammenti variavano tra 700 e 500 mila nanometri, suggerendo che potrebbero spostarsi all’interno del corpo e accumularsi negli organi.

Altri studi hanno rilevato microplastiche anche in organi vitali come cuore, polmoni e cervello. Un’indagine pubblicata nel New England Journal of Medicine ha documentato per la prima volta la presenza di microplastiche nel tessuto cardiaco umano, sollevando preoccupazioni per il loro potenziale ruolo nello sviluppo di malattie cardiovascolari, infarti e ictus. Inoltre, un articolo su National Geographic ha approfondito l’impatto delle microplastiche sul cuore, sottolineando che queste particelle possono aumentare il rischio di infiammazione cellulare e stress ossidativo, contribuendo alla formazione di placche aterosclerotiche.

La plastisfera: un nuovo mondo di plastica

La presenza così invasiva di plastica nei mari di tutto il mondo ha dato origine ad un nuovo ecosistema indicato col termine plastisfera, un’espressione utilizzata per indicare l’insieme di micro e macro organismi, tra cui batteri, virus, funghi, microalghe, invertebrati, meduse e crostacei, che colonizzano i rifiuti di plastica formando una sorta di pellicola denominata biofilm. Quest’ultimo è stato individuato per la prima volta nel 2013 ed ha immediatamente suscitato preoccupazione tra gli esperti in quanto potrebbe causare lo scoppio di nuove epidemie.

Nel 2016 due biologi olandesi scoprirono che, nella miriade di batteri che vivevano in quegli ecosistemi, erano presenti anche quelli appartenenti alla famiglia dei vibrioni, di cui fa parte il virus responsabile del colera. Nel 2019 ci fu un’altra scoperta allarmante: nella regione antartica sono stati rinvenuti dei rifiuti di plastica su cui vivevano batteri risultati resistenti agli antibiotici.

Il problema delle microplastiche non si ferma qui. Studi recenti hanno documentato la loro presenza anche nella placenta, nel latte materno e nei testicoli, suggerendo che l’esposizione a queste particelle inizia già durante la gravidanza. Un’analisi svolta presso l’Ospedale Fatebenefratelli di Roma ha rilevato frammenti di plastica nelle placente di donne sane, dimostrando che il fenomeno coinvolge anche i neonati. Altri studi, come quello dell’Università del New Mexico, hanno confermato la presenza di microplastiche in un numero elevato di placente.

Altri studi hanno invece evidenziato che le microplastiche possono compromettere anche la fertilità maschile, rappresentando una minaccia per l’apparato riproduttivo.

Per comprendere la rilevanza di queste scoperte, consiglio la visione del documentario Plastic People, girato da un’emittente canadese con l’obiettivo di sensibilizzare sull’argomento.

Cosa sta facendo l’Europa?

Già negli scorsi anni, l’Europa ha cercato di porre rimedio all’inquinamento da plastica e a tutte le conseguenze che ne derivano. Nel 2007 è entrato in vigore il Regolamento REACH che include restrizioni sulle microplastiche aggiunte intenzionalmente in vari prodotti. Nel 2018 è stata adottata la Strategia Europea per la Plastica che ha l’obiettivo di rendere tutti gli imballaggi di plastica riciclabili entro il 2030. Nel 2021 è entrata in vigore una nuova direttiva che mira a ridurre il consumo di plastica monouso in particolare in determinati articoli come posate, piatti, cannucce e bastoncini.

Oltre a questo, vengono finanziati numerosi progetti di ricerca per poter sviluppare soluzioni innovative in grado di affrontare la questione. Ad esempio, attraverso il Progetto CLAIM (Cleaning Litter by Developing and Applying Innovative Methods in European Seas) si cerca di ridurre la quantità di rifiuti plastici che raggiungono il mare; mentre con il Progetto PlasticsFatE (Plastics Fate and Effects in the Human Body) si studia l’impatto delle microplastiche sulla salute umana. Sono attive anche campagne di sensibilizzazione, come nel caso dell’iniziativa European Week for Waste Reduction, la Settimana Europea per la Riduzione dei Rifiuti, che incoraggia comportamenti più sostenibili tra i cittadini e le imprese.

Rimuovere la plastica dall’ambiente è possibile o è pura fantascienza?

Rimuovere completamente le microplastiche dall’ambiente è una sfida estremamente complessa e, al momento, non del tutto realizzabile. Tuttavia, diverse tecnologie e strategie sono in fase di sviluppo e applicazione per mitigare questo problema. Un esempio emblematico è il progetto The Ocean Cleanup, ideato nel 2013 da Boyan Slat, quando aveva solo 18 anni, con l’obiettivo di ridurre la quantità di plastica negli oceani del mondo.

Fino ad oggi, The Ocean Cleanup ha condotto diverse operazioni di raccolta nel Pacifico, rimuovendo tonnellate di plastica dai mari, dimostrando la fattibilità delle tecnologie sviluppate e contribuendo a migliorare ulteriormente i sistemi utilizzati. Oltre a questo, The Ocean Cleanup lavora anche per sensibilizzare il pubblico sull’importanza della riduzione dell’inquinamento da plastica e promuovere comportamenti sostenibili anche attraverso la collaborazione con governi, aziende e altre organizzazioni non governative per affrontare al meglio la questione.

Sebbene questo progetto rappresenti un’iniziativa estremamente innovativa, rimuovere completamente le microplastiche dall’ambiente è attualmente più vicino alla fantascienza che alla realtà, ma questo non vuol dire che non sia possibile trovare delle soluzioni da attuare da subito e che siano alla portata di tutti.

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