Non siamo tutti uguali. Anzi la presa di coscienza di essere differenti nella nostra esistenza dovrebbe diventare sempre più un dato di consapevolezza. Solo in un senso possiamo affermare di essere tutti uguali: nel principio dell’uguaglianza, dal quale deriva il riconoscimento e il rispetto dei nostri diritti fondamentali, che spettano in modo uguale a ogni persona. Per tutto il resto siamo differenti. Diversi. E se la diversità, la differenza, sono e dovrebbero essere un valore in sé, quasi ontologico, può essere invece un problema quando la medicina non prende in esame le differenze per la cura e il benessere del nostro corpo e della nostra psiche.

E invece la scienza è lì anche per dimostrarci che siamo differenti. Lo siamo per sesso, per genoma, sistema cellulare, molecole, organi e tessuti, muscoli, fisiologia, sistema immunitario, ormonale, cardiovascolare e cerebrale, comportamenti e tanto altro. Per molteplici fattori biologici, ambientali, socio-economici, culturali. Ed è da questo presupposto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito il genere come il risultato di criteri costruiti su parametri sociali circa il comportamento, le azioni e i ruoli attribuiti ad un sesso e come elemento portante per la promozione della salute. Proprio in base a tali indicazioni è nata la medicina di genere, che studia e si occupa dell’influenza delle differenze biologiche definite dal sesso e socio-economiche e culturali definite dal genere e che riguardano lo stato di salute e di malattia di ogni persona.

Perché la salute delle donne è differente dalla salute dell’uomo. E la medicina di genere studia le differenze tra uomo e donna dal punto di vista della frequenza e del modo in cui contraggono le malattie, e soprattutto nella risposta alle terapie. Lo scopo di questo approccio medico sta nel realizzare programmi di prevenzione, sviluppare metodologie diagnostiche e terapie che siano su misura sia per la donna sia per l’uomo. Un nuovo e diverso punto di vista che dovrebbe essere incluso in ogni specialità medica con l’obiettivo di garantire ad ogni persona la cura migliore, rafforzando ulteriormente il sempre più valido concetto di centralità del paziente e di personalizzazione delle terapie.

La medicina, fin dalle sue origini, ha avuto un’impostazione androcentrica relegando gli interessi per la salute femminile ai soli aspetti riproduttivi. Il punto di vista è cominciato a cambiare quando per la prima volta nel 1991 la cardiologa, Bernardine Healy, usò il termine medicina di genere in un articolo pubblicato sul New England Journal Medicine che descriveva la discriminazione delle donne nella gestione delle malattie cardiovascolari. In Italia si comincia a parlarne nel 1998 con un progetto del Ministero della Salute per valorizzare una salute a misura di donna, ma dobbiamo attendere questi ultimi anni perché si abbia una presa di coscienza pubblica verso quella dovuta sensibilità in materia di una medicina personalizzata e soprattutto in grado di tenere conto delle specificità del singolo individuo. E quindi, a maggior ragione, delle differenze di genere. Differenze che incidono sulla prevenzione e sulla salute delle donne.

Abbiamo dovuto attendere il 2012 perché la medicina di genere facesse parte del nostro piano socio-sanitario, la fine del 2016 perché la medicina orientata al genere venisse inserita in tutti gli insegnamenti delle Scuole di Medicina delle Università italiane. E poi il 2018 con un articolo di legge che portasse nel 2019 a un decreto con cui è stato adottato un Piano per l’applicazione e la diffusione della Medicina di Genere. E dove per la prima volta in Italia viene inserito il concetto di genere nella medicina, al fine di garantire in modo omogeneo sul territorio nazionale la qualità e l’appropriatezza delle prestazioni erogate dal Servizio sanitario nazionale. Ma è nel settembre del 2020 che è stato compiuto un ulteriore passo avanti con l’istituzione, presso l’Istituto superiore di sanità, dell’Osservatorio per la medicina di genere.  Una scelta che, una volta tanto, pone il nostro Paese all’avanguardia in Europa nel settore.

Perché la medicina di genere è fondamentale per riconoscere e valorizzare le differenze tra i generi riguardo l’insorgenza di molte malattie, del loro decorso, nella risposta alle terapie e per comprendere i meccanismi che le sottendono. Perché consente di migliorare la politica sanitaria, garantendo equità di accesso e di fruizione alle cure nei due sessi. Inoltre, per identificare screening di malattia appropriati in fasce di età diverse nei due sessi e di garantire l’appropriatezza terapeutica. La consapevolezza della differenza fra maschi e femmine in termini fisiologici così come funzionali, psicologici e socioculturali non è un fatto nominale, non è un formalismo. Parlare di una specificità femminile non è solo un atteggiamento politically correct , significa parlare di contenuti. Oltre agli aspetti ovvi, quali la sessualità e quindi anche fertilità, maternità e menopausa, si parla di differenti approcci alla terapia e dove le differenze sono molte. La più macroscopica è che una donna con diabete ha un rischio maggiore di infarto (due volte) e di malattie cardiovascolari (tre volte) rispetto a una donna non diabetica di pari età e peso mentre nell’uomo con diabete il rischio aumenta solo di 2 volte. Anche gli esiti dell’infarto sono più spesso infausti perché nelle donne si presenta di frequente con sintomi sfumati o atipici che ne ritardano la diagnosi.

Sono molte le patologie che hanno incidenza e mortalità superiori nelle donne rispetto agli uomini, sono le malattie del sistema immunitario (sclerosi multipla e artrite reumatoide), quelle neurologiche (cefalea e depressione) o quelle autoimmuni della tiroide o la sclerodermia che presentano una frequenza da 7 a 10 volte più elevata nelle donne rispetto agli uomini. Molte ricerche hanno confermato che la donna sviluppa più facilmente ipertensione arteriosa e va incontro ad aumento del colesterolo LDL – quello cosiddetto cattivo – dopo la menopausa.  Che l’Alzheimer e la demenza senile colpiscono il doppio delle donne dopo i 65 anni rispetto ai coetanei maschi, mentre gli uomini hanno un rischio di ammalarsi di Parkinson doppio rispetto alle donne. Che il danno prodotto da 1 sigaretta nella donna è uguale a quello prodotto da 5 sigarette nell’uomo, mentre gli uomini diabetici hanno un’evoluzione più rapida di alcune complicanze come neuropatia e nefropatia.

Gli studi effettuati hanno inoltre dimostrato che le donne hanno reazioni ed effetti collaterali diversi dagli uomini per una diversa farmacocinetica e farmacodinamica. Per esempio, l’aspirina protegge meno dagli eventi cardiovascolari le donne degli uomini. Alcuni farmaci antiipertensivi sono più efficaci negli uomini (ACE-inibitori) ed altri nelle donne (sartani); gli oppioidi (morfina) hanno maggiore efficacia analgesica nelle donne o che per esempio si riprendono dall’anestesia più velocemente degli uomini. Curare una donna spesso può essere più difficile e aver bisogno di una maggiore attenzione nel seguire il decorso della malattia. Anche se da parte delle donne c’è sicuramente più prevenzione e questa disponibilità femminile va incoraggiata dandole seguito con una assistenza sempre più puntuale e più personalizzata come previsto dalla medicina di genere. Cosa che ancora è abbastanza lontana da venire nei nostri ospedali o negli studi medici. Nonostante i molti passi in avanti ancora oggi non le viene data la dovuta importanza ed è ancora scarsa l’attenzione alla conoscenza di come le malattie possano evolvere differentemente nell’uomo e nella donna. E questo avviene in relazione alla prevenzione, all’esordio e alla progressione dei sintomi, alla scelta dei percorsi diagnostici, all’interpretazione dei test applicati, all’impostazione della terapia e alla valutazione della risposta ai farmaci.

E seppure molto è stato fatto per raggiungere l’uguaglianza tra maschi e femmine, nella cura tuttavia ancora permane l’atavico pregiudizio secondo il quale la donna – e quindi la sua salute e persino la sua sopravvivenza – sia meno importante rispetto all’uomo. A questo si aggiunge il fatto che spesso in una coppia il maschio è curato e la compagna è curante, e che in tutto il mondo in ambito famigliare è la donna a essere caregiver, portatrice di cura. Questo sciaguratamente fin troppo spesso la disincentiva a sentirsi anche essa paziente.

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