Quando Yara Sharif nel 2005 lascia la Palestina per andare a frequentare un master a Londra, è completamente impregnata della sua terra, ne ha già bevuto fino in fondo il calice. 

Per esempio suo padre, medico a Ramallah, Yara l’ha visto la prima volta a 2 anni: perché quando sua madre, ginecologa, era incinta, lui era stato trasferito nelle carceri israeliani, per trascorrervi il primo di molti periodi di quella che lì chiamano detenzione amministrativa: cioè un’incarcerazione senza processo e senza un’accusa definita.

Gerusalemme è dove Yara nasce, Ramallah dove cresce, Bir Zeit dove si laurea in architettura: basta guardare una mappa per capire che è tutto lì, la sua vita si svolge nel raggio di pochi chilometri. Come scriverà più tardi nello splendido libro ‘Architecture of Resistance’: 

“io cercavo una narrazione più ampia, dove la vita quotidiana fosse più grande della città di Ramallah, dove le avventure potessero comprendere qualcosa più che i viaggi attraverso i check point, e dove i sogni potessero andare oltre quello di intrufolarmi dentro Gerusalemme”.

Quando nasce il tuo desiderio di diventare un’architetta, Yara?
La mia decisione di studiare architettura nasce proprio da questa vista intrappolata che noi palestinesi siamo costretti ad avere dello spazio: perché nulla più dell’architettura è relazione fra spazio e creatività.

Dopo la laurea, Yara Sharif lavora per 5 anni per Riwaq, un’organizzazione che si propone di tutelare il patrimonio di edifici storici della Palestina, poi vince la borsa di studio per frequentare un master a Londra. Yara è preparata e appassionata, il bisogno di dare vita agli spazi inciso nella pelle: conseguito questo master, le offrono una nuova borsa di studio per frequentarne un altro. Conosce Murray Fraser e Nasser Golzari e con loro fonda il PART Palestinian Regeneration Team, una piattaforma di dialogo fra accademici, tecnici e sociologi  sulla situazione dei Territori Occupati. Nasser Golzari, azero nato in Iran, diventa suo partner nel lavoro e nella vita. Nel loro studio lavorano a progetti legati alla sostenibilità ambientale, o che più in generale esplorano aree di questioni sociali, rigenerazione e identità.

Il patrimonio del dolore subìto

Incontro Yara il 7 maggio scorso alla Biennale Architettura di Venezia, il giorno del taglio del nastro del padiglione britannico, dove è stato esposto un progetto suo e di Nasser Golzari per la ricostruzione di Gaza. È difficile guardare l’esposizione delle cicatrici della sua terra sventrata senza pensare alle cicatrici interiori: ma né a quel paesaggio martoriato di Gaza (la città di sua madre, dove in quest’ultimo anno e mezzo lei ha perso 22 familiari stretti e 54 in totale, di cui 22 bambini), né al suo tormentato e mai esibito, anzi celato, paesaggio interiore, Yara intende rinunciare: 

“Si potrebbe dire: ‘Spostiamo le macerie e iniziamo la ricostruzione’. Ma in quelle macerie trovi, insieme ai resti dei nostri corpi, memorie urbane e memorie sociali. In quelle rovine pulsa ancora la nostra identità.” 

Ed ecco infatti che il loro progetto ‘Object of Repair‘, all’interno della mostra ‘Geology of Britannic Repair’ nel Padiglione Britannico – premiato il 10 maggio con la menzione speciale della giuria internazionale della mostra – propone di riappropriarsi delle loro rovine e da quelle recuperare i materiali per creare una nuova pelle. 

I creatori dei vari spazi espositivi del Padiglione Britannico al taglio del nastro. Yara Sharif in terza fila a sinistra, Nasser Golzari in giacca bianca in quarta fila a destra.

Chi conosce i Giardini della Biennale, ricorderà che il padiglione britannico, collocato al termine del grande viale principale, affiancato da Francia e Germania su entrambi i lati, ma sopraelevato rispetto ad essi, con la sua grandiosa cascata di gradini e colonne neoclassiche, incarna plasticamente il potere dell’impero britannico dei primi decenni del Novecento. Questo simbolo di un impero scomparso è stato più di una volta sede di mostre che mettono in discussione l’eredità a lungo termine che ha lasciato nelle colonie. E così è anche alla Biennale di Architettura di quest’anno con ‘Geology of Britannic Repair’, che espone anche lavori svolti in collaborazione con un’altra ex colonia, il Kenia.
Quello intorno a cui tutto gira è la possibilità dell’architettura di invertire gli impatti negativi dei sistemi coloniali, assumendo pratiche locali di costruzione che offrano riparazione e rinnovamento.

Fammi un esempio concreto, Yara.
“È molto semplice. I gazawi hanno una lunga storia di distruzione e per necessità hanno sempre riciclato le loro macerie e il calcestruzzo frantumato per ricostruire. In un contesto di urgenza e di scarsità, strumenti banali come le barre, il calcestruzzo frantumato, l’argilla, la sabbia e il metallo ondulato diventano risorse di cui riappropriarsi. E a cui dare anche nuovo significato. Perché questa alla fine non è la fotografia di una sconfitta, al contrario: mette in luce immaginazione e capacità infinita di sopravvivenza.”

Questa mappa, che fa parte della mostra, posiziona il Padiglione Britannico su un asse parabolico che collega Londra a Nairobi lungo la Great Rift Valley, che attraversa anche tutta la Palestina raccontando la storia di estrazione coloniale ancora in atto.

ReWriting Gaza

ReWriting Gaza, si potrebbe dire. Architettura non solo come costruzione, ma come narrazione, resistenza e riparazione. Quella che oggi piace tanto chiamare resilienza: una resistenza elastica, che non si spezza, ma si adatta e trova nuove vie di sopravvivenza. L’esposizione, attraverso una serie di mappe e fotografie, mette a nudo lo sfruttamento coloniale che ha profondamente segnato il paesaggio palestinese, dal 1935 al 2025, cioè dai tempi del Mandato britannico fino all’attuale occupazione israeliana.

È stato infatti l’Impero britannico a inaugurare la diffusa appropriazione indebita di aree geografiche ed estrazioni geologiche. E oggi assistiamo alla distruzione israeliana del paesaggio con la cancellazione delle risorse palestinesi – pietra, acqua, gas, persino sabbia – che ha lacerato il terreno e ridotto in macerie il bordo costiero di Gaza.

Gaza Global University

Fra le tante iniziative del PART e di ‘Architects for Gaza’ (vedi ad esempio il concorso per ridisegnare le scuole distrutte della Palestina) ora c’è anche ‘Gaza Global University‘. Una piattaforma che riunisce accademici e professionisti per supportare gli studenti palestinesi di architettura, design e urbanistica, con tutorial online e lezioni gratuite.

Come avete promosso questa iniziativa, Yara?
“Abbiamo lanciato su Gaza centinaia e centinaia di volantini. Eravamo focalizzati sull’architettura, ma hanno risposto anche studenti di altre facoltà. Ad esempio, in collaborazione con l’università di Nablus, altri professionisti nostri volontari stanno seguendo gli studenti in medicina. Certo la situazione è difficile, manca l’elettricità, mancano i computer. Dobbiamo essere molto flessibili. Ci sono tempi differenti per ogni studente, differenti format di compiti da fare a casa: prima di studiare, a volte gli studenti devono scappare.

L’Architettura della Resistenza

C’è molta poesia e molta speranza, oltre ai tanti aspetti tecnici, nel libro di Yara Sharif ‘Architecture of Resistance – Coltivare spiragli di apertura all’interno del conflitto israelo-palestinese’: a fronte delle mappe disegnate dagli inglesi e dagli israeliani, Yara propone collage, una sua forma di mappatura per ripensare lo spazio: i checkpoint e il muro non più momenti di divisione e frammentazione ma ponti che connettono spazi di vita, network invisibili, o spazi collettivi da sognare.  Scrive:
“Alcuni collage sono proprio nati per rompere le frontiere e offrire momenti immaginati, per riflettere, interpretare, inquadrare, analizzare, domandare, proporre, esagerare e sognare”.

Esagerare e sognare, tu scrivi. Cosa vuol dire oggi ‘casa’ a Gaza? Pare che almeno il 70% degli edifici sia andato distrutto. Distrutti gli spazi comuni all’aperto, che erano la continuazione delle case private: la strada era quasi la zona giorno delle abitazioni. Distrutte le relazioni fra le strade, con il mare, con il paese. Distrutto il litorale. Progettare il futuro è possibile? Cosa speri nell’immediato?
“Io spero ancora in una mobilitazione internazionale. La pressione pubblica può avere un’enorme potere. Ma finora non si è vista per la Palestina come per altri casi. Israele continua ad avere semaforo verde in qualunque azione, il genocidio in atto sembra essere ‘normalizzato’. Ma se si normalizzano queste azioni, prima o poi arrivano anche sulla soglia di casa di chi ancora non risveglia la proprio coscienza. E allora sarà troppo tardi per l’indignazione e l’azione.”

L’ultimo frame del cortometraggio presentato nella mostra ‘Object of Repair’.
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