Ci viene a volte chiesto: con chi vorresti fare un viaggio? Tre le mie risposte, c’è lei, Sophie Calle, non la semplice compagna di strada, ma un demiurgo capace di iniziare a una dimensione superiore del nomadismo. Sono tanti gli artisti che trattano il viaggio come tema di ispirazione, creando installazioni o libri, ma solo Sophie Calle è riuscita a rendere l’esperienza di un viaggio, fisico e reale, un capolavoro d’arte.
Lo si tenga bene a mente se, Covid permettendo (e per ora lo permette) si andrà alla Fondazione Merz di Torino dove fino al 31 gennaio le opere di Sophie Calle sono presenti alla mostra collettiva, tutta al femminile, Push the limits. Un’esposizione sugli strappi, i ricordi che diventano ossessioni, le situazioni indicibili che possono essere comunicate solo con un linguaggio che ancora non esiste – i limiti, appunto. Ed estremo è il viaggiare di questa sofisticata signora francese, capace di sovvertire le regole del gioco e di inventare una pratica che sfugge alle concentualizzazioni per restare materia viva, esperienza sulla propria pelle. Ogni suo lavoro spiazza perché traccia uno spazio del tutto nuovo, e in attesa di rivederla o di scoprirla alla Merz, ricordo, tra i tanti, tre suoi lavori che hanno aperto altrettante nuove frontiere del viaggio.
Il primo: una sorta di servizio fotografico a Gerusalemme, dove il suo obiettivo ha evitato volti o architetture, posti di blocco o luoghi sacri, per fissare solo esili corde tenute su da pali tra edifici, o piloni piantati tra case e apparentemente inutili. Non una persona in queste fotografie, solo una vita per assenza tra queste allusioni di steccati: sono demarcazioni che sfuggono agli occhi profani ma che segnano le recinzioni rituali, gli erouv, all’interno delle quali sono permesse agli ortodossi attività altrimenti vietate durante lo shabbat ebraico, come spostarsi o portare oggetti. Sophie Calle ha chiesto a ebrei e palestinesi di Gerusalemme di fargli scoprire alcuni di questi spazi pubblici che hanno un carattere privato, e grazie al suo lavoro si entra in uno spazio altro, con leggi proprie sconosciute al non ortodosso, un viaggio nel viaggio, dove la frontiera è replicata nella creazione di passaggi e cortili stabiliti da questi altrimenti enigmatici fili di ferro, cordicelle, bastoni che sembrano accennare a qualcosa senza un senso decifrabile. L’erouv è un fatto fisico, vero, e di grande importanza per il quaranta per cento della popolazione di Gerusalemme, che se ne serve per poter svolgere semplici ma essenziali attività quotidiane all’interno di una strada o tra due case contigue; ma l’erouv si fa anche metafora dello spostamento, una sorta di magico cerchio di gesso dal quale non si può uscire durante la festività.
Altra caso è il celebre Viaggio in California di Sophie Calle. Un viaggio non proprio suo, ma del suo letto. Le cose andarono così: un ammiratore americano le scrive del brutto periodo che sta attraversando, questione di solitudine sentimentale, e le chiede di trascorrere un po’ di tempo nel suo letto – una formula ambigua. Sophie acconsente alla richiesta ma a modo suo: anziché invitarlo in Francia o rendergli visita in California, impacchetta il suo letto e lo spedisce da Parigi a Los Angeles, all’indirizzo di casa del suo depresso amico di penna. È solo un prestito: dopo un anno il letto torna a Parigi, accompagnato da un biglietto di ringraziamento nel quale l’ammiratore dichiara che aver dormito nel suo letto gli ha fatto bene e si sente finalmente meglio: un viaggio di guarigione come tanti, ma realizzato non per interposta persona, ma per interposto oggetto, e il più privato, e anche tra i più ingombranti e meno trasportabili, degli oggetti. Un letto che con la sua avventura è poi diventato un oggetto da esposizione.
Un ultimo tra i viaggi di Sophie Calle che apre nuovi orizzonti è Voir la mer. A Istanbul, città ormai megalopoli sul Bosforo, ma approdo di centinaia di migliaia di migranti dalle zone interne della Turchia, Sophie ha incontrato una dozzina di abitanti con una singolare caratteristica: nessuno di loro aveva mai visto il mare. Li ha portati su una spiaggia della città, al cospetto di questa sensazionale scoperta di acqua sconfinata, e li ha osservati, fotografandoli con pudore da dietro, mentre ciascuno di loro è restato alcuni lunghissimi minuti fermo in contemplazione di fronte al mare. Tra loro, cinque ragazzi, inchinati davanti alla maestosità del Bosforo, in forma di rispetto o di ringraziamento. Le stesse persone sono state poi nuovamente ritratte, con le spalle al mare, dopo la rivelazione di quel mondo che era stato loro negato pur essendo a due passi dai loro immensi caseggiati periferici. Sono schiene, pose plastiche nella loro immobilità, e poi sguardi perplessi, illuminati o storditi, che equivalgono ad altrettanti capitoli della creazione.
Una visita a Istanbul, un incontro, un sguardo sul mare, che è la quintessenza del lavoro di Sophie Calle: opera d’arte, superamento del limite e viaggio – che in lei sono un fiore solo.
Push the Limits, Fondazione Merz, via Limone 24 Torino.