Se la parola d’ordine della moda è inclusività, allora significa che non bisogna lasciar indietro proprio nessuno. Neppure chi ha difficoltà a indossare un paio di jeans, allacciarsi le scarpe o incrociare una spallina, abbottonarsi una giacca o esibire una ferita. Non sono pochi. Solo in Italia, per esempio, le persone con limitazioni funzionali gravi di più di 15 anni sono 3,1 milioni (il 60 per cento donne), ma se comprendiamo anche quelle meno gravi, il numero sale a 12,8 milioni (qui rapporto Istat). Tra le varie esclusioni sociali che questa condizione spesso comporta, la moda potrebbe sembrare una preoccupazione accessoria, così come l’interesse per l’adaptive fashion, eppure, anche nell’autonomia dei piccoli gesti e delle routine quotidiane si mantiene e determina la dignità di ogni singolo individuo. Si tratta di fatto, come riporta un recente articolo su The Guardian, di una battaglia per i diritti umani. (Anche) per chi sta affrontando trattamenti invalidanti che li costringono a portare flebo o cateteri, per chi ha disturbi motori o cognitivi per Alzheimer o Parkinson. Ma per non cadere nel solito adaptive washing, conviene forse fare qualche passo indietro.

Sfilare non significa cambiare le cose

Era il 2015 quando Madeline Stuart, sfilava a New York diventando la prima modella con sindrome di down (e aprendo la strada a Ellie Goldstein protagonista dello scouting The Gucci Beauty Glitch di Vogue Italia di novembre scorso). Ed era il 2014 quando Danielle Sheypuk, sfilò in carozzina alla Fashion Week di New York per Carrie Hammer (alla recente New York Fashion Week, è stata Jillian Mercado, affetta da distrofia muscolare e su sedia rotelle, a sfilato per The Blonds). A febbraio 2018 invece, ci fu a Milano, un’edizione della Milano Fashion Week Inclusive, organizzata dall’agenzia Iulia Barton, la prima che si occupa specificatamente di top model con disabilità, e Fondazione Vertical, onlus italiana per la cura delle paralisi midollari. Vi parteciparono modelle come Rebekah Marine, con una protesi al braccio, Leslie Irby, prima modella nera in carozzina, Shaholly Ayers, anche lei senza un avambraccio, e Bruna Romano, sempre in sedia a rotelle… e molte altre, perché in vero, negli ultimi anni nella moda, o almeno la promozione che si fa di essa, lo schema canonico della bellezza è stato sicuramente infranto, e le modelle disabili sono spesso un simbolo di questa rottura (come non ricordare anche Bebe Vio testimonial di brand di lusso). È quando però si va ad analizzare quanti progetti in vero esistono per dare corpo a una moda realmente inclusiva che la musica cambia, e la retorica appare in tutta la sua debolezza.

Progettare l’adattività

Open Style Lab è un’organizzazione nata nel 2014 presso il MIT e che invita ogni estate progettisti e designer a pensare prototipi per persone con disabilità. Nel 2020 per esempio, in collaborazione con la Muscular Dystrophy Association, (MDA), si è cercato di creare una serie di accessori attraverso una progettazione collaborativa in video. L’International Fashion Academy di Parigi invece, sta collaborando con Juniper Unlimited, uno dei maggiori rivenditori e incubatori di nuovi brand di adaptive clothing, per il suo programma post-laurea Unthreading Project incentrato sul design di un abbigliamento specifico per le persone disabili. Ma sono molte le start up che si concentrano sull’adaptive fashion. Tra le più recenti, UCQC è nata per migliorare la vestibilità e l’autonomia di chi è costretto a stare, magari dopo un incidente, su una sedia a rotelle. Cerniere facili da chiudere e che non ingombrano stando tanto seduti, chiusure immediate, e soluzioni studiate insieme ai propri clienti che, come si vede dall’immagine del sito, spesso sono giovani e pieni di vita. Il movimento Fashion Revolution d’altra parte (di cui ho già parlato qui), sta sostenendo, attraverso Fashion Open Studio, il nuovo brand di adaptive fashion Reset presentato alla London Fashion Week dello scorso febbraio. A crearlo due sorelle, Monika Dugar e Usha Baid, al cui padre otto anni fa è stato diagnosticato il morbo di Parkinson, ed è proprio alle persone con questa disabilità che è rivolta la collezione. Giacche con una vestibilità ripensata per i diversi movimenti, chiusure con velcro, colli e maniche con facile accesso, spalle comode (un altro brand nato per le persone con questa disabilità è MagnaReady con camicie che al posto dei bottoni hanno magneti per una chiusta facilitata).

Aspettando che i grandi brand

Sicuramente l’adaptive fashion è un rigoroso esercizio di progettualità, ma ne vale la pena, se, come dicono i dati di Coherent Market Insights, il valore di mercato globale per la moda pensata per persone con diverse disabilità arriverà a 330 miliardi di euro entro il 2026, e se, come rivela Lyst, la ricerca on line intorno a termini come adaptive fashion è cresciuta nell’ultimo anno dell’80 per cento. E mentre i grandi brand latitano (Vogue Business scrive di una collaborazione di Runway of Dreams, organizzazione non profit fondata dall’ex stilista Mindy Scheier nel 2014 dopo che a suo figlio era stata diagnosticata la distrofia muscolare, con LVMH, ma nulla si vede all’orizzonte), l’americano Tommy Hilfiger, che ha una sua linea di adaptive fashion (Tommy Adaptive) dal 2016 (nella foto di apertura), presto aumenterà a due le sue collezioni annuali. Mentre anche l’acquisto on line di abbigliamento con pulsanti magnetici e chiusure con velcro, orli regolabili che si adattano alle protesi, aperture che facilitano il passaggio di gambe, braccia e testa, sarà facilitato da un’assistenza continua e da una guida vocale. Recentemente anche Nike ha lanciato la linea GO FlyEase per consentire o ogni essere umano, di qualsiasi età o abilità, di indossare le scarpe senza l’uso delle mani, ma si tratta di un progetto non specificamente pensato per questo target, che continua a essere nella pratica largamente ignorato dai grandi brand. In compenso, a parte l’ultimo nuovo arrivato australiano Every Human, i piccoli marchi dell’adaptive fashion stanno diventando sempre più grandi. Da Target a So Yes, da Miga Swimmer a Megami (azienda inglese che crea intimo per donne che hanno subito la mastectomia, in Italia in vendita su Zalando), contribuendo a creare un’immagine meno patinata forse ma più attiva delle persone con diverse abilità. La speranza che la loro ricerca, funzionale e stilistica, sul campo possa diventare tesoro comune.

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