Who made my clothes? (Chi ha fatto i miei vestiti). Ogni anno, verso la fine di aprile, Fashion Revolution rilancia questa domanda nell’empireo della moda. Il movimento nato nel 2013 in seguito al crollo della fabbrica di abbigliamento Rana Plaza in Bangladesh che causò la morte di 1113 persone, è stato uno dei primi a spingere il settore verso un maggior rispetto di ambiente e persone, comportamento che oggi riassumiamo con la parola sostenibilità. Va detto che, per quanto riguarda le istanze ambientali, queste sono ormai considerate un prerequisito per qualsiasi brand che si voglia affacciare sul mercato.

Quello che invece sembra maggiormente preoccupare e interessare i nuovi consumatori è la condizione di lavoro delle donne e degli uomini che realizzano gli abiti (e gli accessori) che intendono acquistare. Secondo il rapporto Out of Sight: A Call for Transparency from Field to Fabric, pubblicato lo scorso dicembre e realizzato dalla stessa Fashion Revolution nei cinque maggiori mercati europei (Germania, Francia, Italia, Spagna e Regno Unito),  il 75 per cento delle persone pensa che i marchi di moda dovrebbero fare di più per migliorare la vita delle donne che realizzano i loro vestiti, mentre il 69 chiede esplicitamente una maggiore trasparenza della filiera. Chiede cioè che tutti i passaggi che riguardano il capo o l’accessorio acquistato siano tracciabili ed evidenti. Gli italiani, in particolare, sono quelli che si dichiarano maggiormente preoccupati per l’utilizzo di sostanze chimiche dannose, per un salario dignitoso destinato a chi effettivamente produce, e per una certificazione etica e di sostenibilità.

Sapere chi ha fatto il vestito che indossiamo sta diventando in sostanza sempre più determinante per la scelta di acquisto e storie come quella svelata dalla BBC anni fa, che dimostrava come l’etichetta Made in Marocco di una camicia di Zara nascondeva in realtà un viaggio in una decina di Paesi diversi (dall’Austria all’Egitto, dalla Cina alla Spagna), saranno sempre meno tollerate. O almeno questo è quello che sperano le associazioni che vedono nel nuovo consumatore consapevole una sorta di guida per una prossima rivoluzione. Sta di fatto che grazie alle nuove tecnologie di identificazione digitale, la tracciabilità completa e la trasparenza end to end per ogni prodotto, sono possibili (per esempio la RFID). 

Offrire ai consumatori i più elevati standard di visibilità, sicurezza, eticità e sostenibilità, non è mera utopia. Senza considerare che un’etichetta così trasparente trarrebbe d’impaccio un settore che, oltre a essere ritenuto responsabile del 4 per cento delle emissioni di gas serra, e del 20 dell’inquinamento idrico industriale a livello globale, è sempre additato per condotte poco chiare su sfruttamento del lavoro di donne e minori, salari da fame, e ambienti di lavoro spesso pericolosi. Il movimento Pay Up monitora la sostenibilità lato umano di 40 grandi marchi di moda e invita a firmare una petizione per responsabilizzarli e soprattutto per farsi promotori, nei Paesi dove operano, anche di leggi di maggior tutela per le lavoratrici. Come dire che, per una delle industrie più importanti del pianeta, fare innovazione, nel suo senso più profondo, significa anche questo. Ed è quasi scontato dire che un nuovo modello di business non può che passare da questo ripensamento del ruolo sociale, etico, valoriale, dell’impresa creativa.

Va forse ricordato che la moda, con la Fashion Industry Charter for Climate Action, si è presa un impegno per una maggiore sostenibilità anche alla Conferenza delle Nazioni Unite, con l’intento di portare l’industria della moda a zero emissioni nette di gas serra entro il 2050 e a una riduzione delle emissioni di GHG del 30 per cento entro il 2030. Ma nell’Agenda 2030 ci sono anche obiettivi sociali e culturali, e la tracciabilità della filiera e la difesa dei diritti dei lavoratori rientrano tra questi.  Lo scorso ottobre è stata per esempio presentata la Tamil Nadu Declaration per eliminare il grave sfruttamento del lavoro, quando non vero lavoro forzato, nelle fabbriche tessili del Tamil Nadu, nell’India meridionale. Un distretto dove lavorano 280 mila lavoratori, per lo più ragazze adolescenti e giovani donne che spesso subiscono straordinari eccessivi e involontari, salari estremamente bassi, violenza fisica e sessuale, limitazione di movimento e negazione della libertà di associazione. I filati lavorati da queste donne vanno poi a rifornire molti marchi internazionali. Ecco perché la Tamil Nadu Alliance invita i principali marchi di moda a firmare la dichiarazione e a lavorare per un’etichetta sempre più trasparente, che renda pubbliche tutte le fasi della lavorazione, dal taglio ai vari processi tessili e formazione della materia prima.

Va da sé che il cambiamento delle abitudini dei consumatori è un punto centrale. Ma i segnali, anche nel modo di avvicinarsi al prodotto moda, ci sono: le vendite dell’usato stanno aumentando vertiginosamente, e riparazione e upcycling sono ormai sinonimo di lusso. Dobbiamo fare solo quel piccolo passo in più e guardare dietro e dentro un abito o una borsa, per chiederci e soprattutto chiedere al brand di riferimento: Chi ha fatto i miei vestiti?

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