Fu John T. Molloy a coniare e rendere universale, nel 1975, il termine power dressing, e mai come in questi ultimi anni abbiamo visto donne che dello storytelling dell’abito hanno fatto un’arte, ridando peso culturale e politico al gesto del vestirsi.
Per fare un po’ di storia: era il giugno 2008 quando il New York Times titolava She dresses to win!, dove she stava per Michelle Obama che, da lì a qualche mese, sarebbe diventata la nuova first lady degli Stati Uniti d’America. Michelle Obama ci ha insegnato che si potevano usare gli abiti come messaggio diplomatico (omaggiando uno stilista del Paese in cui era in visita ogni volta: Missoni in Italia per Expo, Vera Wang in Cina, Peren by Thornton Bregazzi, e Mary Katrantzou a Londra); come messaggio politico (dichiarata preferenza per Narciso Rodriguez, omosessuale, sposato dal 2013 con un uomo e figlio di immigrati cubani); e come dichiarazione di emancipazione femminile: nel suo primo discorso natalizio da first lady, indossò il wrap dress che Diane Von Fürstenberg ridisegnò nel 1972 (Elsa Schiaparelli, inventrice del rosa shocking, ne aveva già creato uno negli anni Trenta) ispirata, disse lei, dal divorzio e dall’entusiasmo figlio della nuova libertà sessuale…

E che l’abito sia uno degli strumenti più efficaci per comunicare il proprio sé e la propria idea di leadership ce lo aveva già dimostrato Margareth Thatcher quando, nel febbraio 1975, prima donna nella storia a essere eletta a capo del Partito Conservatore in Inghilterra, scelse di indossare un tailleur celeste di Mansfield, il marchio creato da un certo Frank Russel, figlio di un sarto, quasi eroe di guerra e perfetto esempio di uomo-che-si-è-fatto-da-sé diventato poi King of coat. E che dire delle palette di Angela Merkel (per la quale Vanessa Friedman, nel suo blog On the Runway parlò di merkelizzazione dei look femminile), della regina Elisabetta II, o di Kate Middleton, che ricicla abiti e mescola outfit low budget a grandi firme rivendicando la sponsorizzazione di giovani stilisti emergenti?

Ormai è storia, appunto, ché le scelte del guardaroba che interessano oggi sono quelle della giovane poetessa americana Amanda Gorman (ne hanno scritto tutti, anche il New York Times) che, in abito giallo Prada, e cerchietto di raso rosso sempre Prada, nonché diversi accessori tutti altamente simbolici, ha declamato la sua poesia The Hill We Climb durante la cerimonia di insediamento di Joe Biden e Kamala Harris. Già modella per Helmut Lang, Gorman pochi giorni dopo è stata scritturata dall’agenzia di modelle IMG, la stessa di Gigi e Bella Hadid, e il prossimo 7 febbraio declamerà i suoi versi durante lo spettacolo per il 55esimo  Super Bowl (l’anno scorso, per capirci, durante l’halftime show c’erano state Jennifer Lopez e Shakira). La passione per la moda di Amanda Gorman è ben nota da quando, in un’intervista a Vogue, aveva detto: «Quando mi esibisco sul palco, non penso solo ai miei vestiti, ma a quello che la mia maglietta e la mia gonna gialla dicono sulla mia identità di poeta». Era il 2019 e Prada, l’aveva invitata a intervenire alla sua conferenza Shaping a Sustainable Future Society , dopo di che aveva scritto la poesia A Poet’s Prada che recitava così (ho evidenziato le frasi significative):

Seeking: Well-crafted, high-end
Fashion that transcend trends

Looking: To challenge fashion codes
Dance off previously carved roads
Unafraid to experiment, explore, explode

Demanding: ready-to-wear style in our hands
Giving us power, which makes it a power brand

Nothing at all is truer
Than fashion that dances
In the past, present, future

Style is statement, style is creative power revitalized
And never compromised. It is then in no way a surprise
That it’s also “uniforms for the slightly disenfranchised.”

This is no cloth on my arm
It’s the uniform of an armada
A poet’s sonata pulsing in Prada

Fashion is a lamp only when it is unafraid
Its fierce light pierces the soul like a blade
Every swish of fabric is a melody
And every creation is purest poetry

Ora, con tutto il rispetto per la poetica di Amanda Gorman, non è tanto cosa ci dice lei o la sua poesia sulla moda, ma cosa ci dice la moda che sceglie di dirci qualcosa attraverso di lei. Con buona pace della narrazione prevalente, che ci in-forma che oggi i brand devono incarnare valori solidi e coerenti (più che stili o inviti all’acquisto) per entrare in una relazione dialettica e profonda con il loro pubblico.

Se permettete però, ancora un passo indietro. E cioè al 2012 anno in cui Hajo Adams e Adam D. Galinsky, due psicologi della Northwestern University, pubblicano uno studio dal titolo Enclothed Cognition, che mostra, in modo scientifico, il modo in cui gli abiti che indossiamo influenzano i processi psicologici, non solo di chi li guarda, ma anche di chi li indossa. La serie di esperimenti dimostrava senza ombra di dubbio che chi indossa un abito è portato ad assumere anche il valore simbolico dei vestiti che indossa. In pratica, se io mi metto un cappotto giallo di Prada, un pile di Patagonia, o scelgo di comprarmi una borsa di Saint Laurent, è perché voglio trarre significato dall’oggetto, identificarmi con esso e sperimentare attraverso la proprietà dell’oggetto la condivisione di quei valori. Non vesto il cappotto, ma incarno, vesto, l’idea di quel futuro, di quella società, di quella persona (in tempo di pandemia e di home working per esempio, alcuni ricercatori che studiano la connessione tra abito, attività cerebrale e produttività, hanno persino scoperto che l’abbigliamento può migliorare o meno le prestazioni lavorative: niente pigiama, insomma, ma forse non serviva una ricerca universitaria per capirlo).

Power dressing ed enclothed cognition considerati, si tratta di risvolti psicologici e identitari che con il tempo sono diventati sempre più importanti. Cosa che spiega e contestualizza questa ansia dei brand su come essi si vedono e sono percepiti. Il fatto che scelgano, per vedersi e rappresentarsi, la poesia, l’arte, il film, in una parola la cultura, va detto che è una buona notizia. Tanto che c’è chi si chiede se i marchi di moda saranno le istituzioni culturali del futuro, e non nel senso di veicolo di produzioni culturali o mecenati (cosa già piuttosto diffusa), ma in quanto loro stessi produttori, creatori e attori di contenuti culturali. È una questione complessa.

Possiamo essere contenti di Prada che organizza conferenze come Culture and Consciousness, chiamando psichiatri, neuroscienziati, filosofi, storici a riflettere su cultura e conoscenze, ma quel legame con il profitto, con la vendita finale come scopo assoluto, lascia qualche dubbio. Lyst ci dice che la ricerca di cappotti gialli dopo l’apparizione di Amanda Gorman è aumentata del 1.328 per cento, mentre il cerchietto è andato sold out. Successe lo stesso all’abito arancio di Narciso Rodriguez indossato da Michelle Obama durante il discorso dello Stato dell’Unione (esaurito sul sito Neiman Marcus in poche ore) e all’abito a scacchi bianchi e rossi di Asos della famosa foto su Twitter per la rielezione del 2012… Si vede che siamo tutti ansiosi di incarnare valori e missioni, che vogliamo a tutti i costi in-vestirci di personalità e identità alt(r)e e condivise. Si vede che ci piace quello che hanno gli altri e semplicemente, lo vogliamo anche noi.

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