«Sii una signora – dicono – non essere troppo grassa. Non essere troppo magra. Mangia. Dimagrisci. Smetti di mangiare così tanto. Ordina un’insalata. Non mangiare carboidrati. Salta il dessert. Mettiti a dieta. Dio, sembri uno scheletro! Perché non mangi e basta? Sembri emaciata. Sembri malata. Agli uomini piacciono le donne con un po’ di carne sulle ossa. Sii una taglia zero. Sii un doppio zero. Sii niente. Sii meno di niente.»

Il testo Be a lady, they said fa eco a tutti i discorsi con cui ci hanno cresciute. L’attrice Cynthia Nixon lo recita nella campagna diretta da Paul McLean, divenuta virale, del magazine statunitense Girls Girls Girls; nel video, la accompagnano le immagini plastificate di tutte le donne che dovremmo essere: romantiche e seducenti, attraenti e pudiche, immaginarie e approvate dalla moda e dalla società.

Il binomio moda e costrizione ha dipinto, da sempre ma con formule sempre diverse, un’iconografia femminile irreale e nociva: donne denutrite hanno sfilato alla Milano Fashion Week del 2020 in una costante sacralizzazione dei disturbi alimentari; sulle passerelle d’alta moda sono banditi peli e vecchiaia, vengono serviti come modelli d’emulazione solo corpi irreali.

Mentre in Europa diversi Stati si sono mossi per costruire una nuova rappresentazione dei corpi nella moda, come la riforma francese contenuta nel Code du Travail che sancisce il divieto di far sfilare modelle dalla massa corporea troppo bassa, l’Italia sta faticando nel creare un immaginario estetico più sano: i Disegni di legge nati per promuovere iniziative di prevenzione dei disturbi alimentari nel fashion system e nuovi canoni di bellezza per modelli e modelle sono ancora in corso d’esame.

Le rivoluzioni vere però non avvengono – quasi mai – solo dall’alto; partono dal «come stai bene» detto dalla vicina di casa mentre siamo in pantofole, si diramano quando ci guardiamo allo specchio e, in fondo, quei baffetti non ci stanno così male, si diffondono con le buone idee di un profilo social.

I social media, gli stessi colpevoli del cyberbullismo e di cucire stigma col body shaming, sono meccanismi complessi e possono anche veicolare messaggi gentili, sono capaci di progettare immaginari che esplodono di vita. Basti pensare a I’mperfetta project di Carlotta Giancane. Il profilo nasce nel 2019 con l’intento di mostrare «storie di autentica bellezza che raccontano di donne comuni e straordinariamente imperfette».

Moda e bellezza imperfetta

Ma com’è fatta questa bellezza? È una polifonia di donne che si mettono a nudo sfidando il regime totalitario della moda, le imposizioni interne ed esterne, sfoggiano rughe, chili e lentiggini come manifesti di liberazione.

«Sono Stella, davanti allo specchio. Nuda, dopo la doccia. Non c’è nessun altro come me. E questa è la mia ricchezza più grande»

scrive Stella Pecollo in uno dei post di I’mperfetta Project. La modella Elena raffigura la propria disabilità, Pia scopre il proprio corpo «destinato a mutare» a causa di una patologia genetica, Laura ci ricorda come «siamo in tutte le forme, dimensioni, colori e caratteristiche», tutte immerse nella meraviglia dell’imperfezione umana.

Da quest’anno, il profilo si è trasformato, come le sue protagoniste, in un’agenzia inclusiva tesa a fornire ai brand di moda le loro clienti dai corpi politicamente e orgogliosamente imperfetti. Le loro muse non sono manichini e vengono selezionate in base al talento e alla personalità, in base ai nei che le rendono vere. Hanno aderito al progetto più di sessanta persone di ogni età e luogo nel solo mese di marzo, si sono candidate taggando I’mperfetta project in una propria foto pubblicata su Instagram.

Come si cambiano i paradigmi? Come si cura una moda che si è ammalata? Così; indossando il proprio punto di vista, con la narrazione di storie, quelle universali, perché dicono la verità. Partiamo dai piccoli gesti, dalle idee sui social, dalle rivoluzioni leggere.

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