Joe Biden, irremovibile in quella che si è dimostrata essere una disastrosa ritirata militare, su una cosa ha avuto ragione: per lui, il “problema Afghanistan si sarebbe chiuso nel giro di un paio di mesi”, e con la scomparsa dei racconti dalle prima pagine dei giornali, ma anche dalle quarte e quinte, sembra proprio che abbia avuto ragione.

In meno di due mesi, l’Afghanistan sembra già dimenticato dall’Occidente. Tanto rumorosa e numericamente rilevante è stata l’eco internazionale nell’immediatezza della crisi, tanto veloce e inesorabile è stato il velo di silenzio lasciato cadere poi.

Eppure il primo aiuto concreto che si può dare alle donne e agli uomini che ogni giorno vengono privati dei loro diritti umani più basilari è continuare a parlarne, tenere accesa una luce su quello che sta accadendo in una terra nella quale l’Occidente è stato presente per vent’anni, creando speranze e illusioni infrante nel giro di poche settimane.

Esiste il tema dei collaboratori rimasti lì e dei quali iniziano a scarseggiare le notizie, esiste il tema dei rifugiati che provano disperatamente ad uscire dal Paese ma che non trovano corridoi umanitari sicuri, e poi esiste il tema delle donne.

Quelle donne che per qualche tempo hanno riassaporato quella libertà che le loro madri e nonne già vivevano negli anni ’70, prima dell’avvento dei Talebani, e che ora sono ripiombate nel buco nero della dittatura e del controllo.

Studentesse dell’Università di Kabul nel 1970

Le donne afghane stanno continuando a resistere. Resistono al divieto di studiare e a quello di lavorare, resistono alle imposizioni sull’abbigliamento, all’annientamento della propria personalità, nella migliore delle ipotesi, e della propria persona, nella peggiore. Sono le donne a guidare i cortei di protesta, a diffondere i video sui social in cui denunciano violenze e repressioni. Sono loro che sfidano i Talebani intervistandoli sulle reti televisive e cercando di continuare a coltivare il sogno della giusta libertà, cullato per vent’anni.

Ma anche le donne afghane hanno paura: non è solo (si fa per dire) paura di morire, è paura di poter unicamente sopravvivere e non vivere una vita piena. Dopo vent’anni di missioni umanitarie internazionali in Afghanistan i giovani e le donne sono consapevoli dei diritti che spettano loro e non sono più disposti ad arrendersi con facilità al dittatore di turno.

Cosa spaventa le donne
e gli uomini afgani

Quello che spaventa realmente la popolazione afghana, e anche tutti i cooperanti che si muovono sul territorio, è essere lasciati soli. Quella disattenzione, tutta occidentale, per cui ciò che è troppo lontano da noi e non ci riguarda da vicino passa rapidamente in secondo o anche in ultimo piano. E la paura dell’oblio è forse una delle paure più pericolose, è quella paura che ti fa sentire solo, un Don Chisciotte che combatte qualcosa che nessun altro vede. Le donne e i giovani afghani che non si arrenderanno sotto i colpi dei Kalašnikov talebani, rischieranno di farlo di fronte alla domanda a cui è sempre difficile rispondere: “è possibile continuare a combattere da soli?” 

Il primo diritto umano che noi cittadini liberi di questa parte del mondo dobbiamo riconoscere agli uomini e alle donne afghane è il diritto di esistere, di essere, di fare rumore. In molti temono la chiusura dei social media, la censura oscurantista e la cacciata dei media internazionali perché se le informazioni non continueranno ad arrivare ai paesi progressisti, allora la repressione sarà totale e a quel punto, checché ne dica Biden, la responsabilità sarà anche nostra.

Per far sì che il silenzio non cali sulla vicenda afghana, la Commissione straordinaria diritti umani al Senato, ha dato il via ad una serie di incontri istituzionali per approfondire lo stato attuale della situazione umanitaria in Afghanistan e le prospettive future nella regione. Il mio consiglio, quindi, è quello di consultare la pagina ufficiale della Commissione straordinaria diritti umani al Senato e in particolare di guardare il video dell’audizione della dottoressa Chiara Cardoletti, rappresentante dell’UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino. Per poter continuare a tenere alta l’attenzione è necessario conoscere a fondo ciò che sta accadendo.

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