Chi si occupa di progetti di sviluppo sostenibile sul campo vede molte parti del mondo da un’angolazione che non è quella della geopolitica o dei media, ma quella delle persone che vi abitano. O che ne fuggono, perché lì dove sono non riescono a intravede un futuro per sé né per i propri figli.

Marco Buemi, il nostro ospite di oggi, ci racconta di muri: dei tanti muri che a più di trent’anni dalla caduta di quello più noto a noi europei, il muro di Berlino, continuano a costellare il pianeta e ad essere causa di fatica, sofferenza e rischi anche mortali per le persone che cercano di attraversare i confini.

I “muri”, la soluzione più ovvia per alzare le distanze

Qualcuno di questi muri Marco Buemi lo ha anche attraversato, ad esempio quello che divide la Cisgiordania da Israele, per vedere con i suoi occhi l’estenuante trafila quotidiana dei cittadin3 palestines3.

Qualcun altro è stato tirato su letteralmente da un giorno all’altro, come quello voluto dall’attuale governo ungherese per fermare i migranti in arrivo dai Balcani. Arginare, separare, escludere: quando qualcosa o qualcuno ci sembra troppo diverso per accettare la sfida della convivenza, quando sentiamo che il nostro stile di vita o la nostra posizione di vantaggio sono minacciati, ecco che la soluzione più ovvia sembra marcare la distanza in maniera inequivocabile, con un muro.

E in tutto questo l’amara verità è che nessun muro ha mai creato più sicurezza, solo più pericoli e più morti. Non sarebbe più utile oltre che più umano, invece che barriere, costruire passaggi?

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