Come stai? sembra una domanda banale, addirittura un automatico e distratto intercalare quando si incontra una persona. Bene, non c’è male, si tira avanti sono le più frequenti e altrettanto automatiche e distratte risposte. Ma se la stessa domanda si fa col tono giusto e guardando negli occhi l’interlocutore, potrebbe diventare una domanda anche imbarazzante e quindi, spesso, si evita di formularla in questo modo.

Attorno a questa domanda gira anche il rapporto medico paziente, quel rapporto che c’è tra una persona bisognosa di aiuto e chi è individuato come colui che, questo aiuto, può darlo. Si ascoltano i sintomi, si sospetta una patologia, si verifica il sospetto con test biochimici e strumentali, si fa una diagnosi e si prescrive una terapia, quando ce n’è una.

Si è sempre discusso se questo modo di agire, per quanto efficiente e professionalmente efficace, possa essere anche sufficiente e completo. C’è chi sostiene che questo è solo un rapporto medico-malattia che può, a volte almeno, non coincidere con il rapporto medico-paziente. E che il ruolo del medico non è solo quello di curare una malattia ma anche quello di curare la salute come questa viene intesa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità già nell’atto della sua costituzione nel 1948: uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia

Ha cominciato Ippocrate nel IV secolo a.C. a chiedersi se il medico debba curare la malattia o curare la salute, e oggi l’argomento è ancor più di attualità come ben analizzato nel saggio scritto a più mani nel 2012 per Universalia: Prendersi cura: la relazione terapeutica e la comunicazione medico-pazienteIl saggio elabora una visione della salute secondo la quale si concespisce l’individuo non come oggetto di cura ma come agente responsabile che ha il potere di favorire o ostacolare le condizioni del proprio benessere.

L’uomo è un organismo complesso con tanti organi e sistemi che, anche se sembra possano lavorare in maniera isolata, hanno tutti, tra loro, una stretta interdipendenza capace di far funzionare tutti gli organi all’unisono, con meccanismi ancora in parte sconosciuti.

Il risultato finale di tutto questo è un corretto funzionamento di un individuo perché possa sopravvivere con il giusto apporto di energia e pezzi di ricambio che arrivano dal cibo e con la giusta quantità di ossigeno che arriva dall’aria.

Ma se si pone la domanda come stai, quella fatta col tono giusto e guardando negli occhi l’interlocutore, si scopre che questa è più potente di un qualsiasi test strumentale e che esplora un campo molto più ampio della sopravvivenza, proprio quello che affronta i dettagli dello stato di salute. Chiedere come stai è la chiave che serve per aprire quella porta dietro la quale ci sono mille corridoi, con tante altre porte che portano a tante altre stanze spesso intercomunicanti e che si dispiegano come un insidioso labirinto.

Non è facile capire se il paziente ha realmente voglia di aprire quelle porte né se ci sono effettivamente porte da aprire, corridoi da esplorare o se non sia meglio lasciare tutto così come sta. Tuttavia, credetemi, se il come stai viene posto con il tono giusto, le pupille del paziente si dilatano smascherando la sicura voglia di aprirsi ma anche la sua paura. 

Ma anche se provate a chiedere a voi stessi come stai davanti a uno specchio guardandovi dritto negli occhi – avete mai provato? – l’effetto potrebbe essere assai insidioso e potrebbe essere difficile sostenere il proprio sguardo per più di pochi secondi. Abbiamo paura di conoscerci, abbiamo paura di raccontare a noi stessi quello che abbiamo dentro, ci stiamo nascondendo qualcosa? E questo qualcosa si esprime in altra maniera, per esempio con sintomi dell’apparato digerente, col mal di testa, con la spossatezza, col malessere indefinito e così via? 

Nella nostra vita normale ci si veste più di quanto ci si spogli: la nudità crea imbarazzo. Ma non dobbiamo nasconderci, non dobbiamo avere paura di noi stessi, dobbiamo avere maggiore confidenza con la nostra identità, non vergognarci. Sì, è così. Se questo cammino ci genera disagio, vuol dire che è il caso di farci aiutare, specialmente se non riusciamo più a sostenere la curiosità della scoperta, quando la curiosità stessa diventa terrore o paura insostenibile. 

Chiediamoci come stai guardandoci negli occhi e proviamo a non abbassare lo sguardo: c’è tanto da scoprire.

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