Non è un film politico, anzi, è piuttosto un romanzo di formazione intimista. Ma di fatto il dramma al centro della storia fa riflettere sui morti di serie A o B, nelle tragedie dell’immigrazione nel Mediterraneo (consiglio Naufraghi senza volto, di Cristina Cattaneo, Premio Galileo 2019).

L’identità di un immigrato senza documenti, morto cadendo dallo scooter per evitare Kasia Smutniak, nel film avvocata di successo completamente assorbita dalla carriera, diventa il centro di tutto. L’avvocata infatti nasconde nel suo passato una sorella morta suicida che, ne è convinta, avrebbe potuto salvare, e sposta su questo giovanissimo cadavere, il dolore per quello della sorella, che non riuscì a vedere.

La gelida donna d’affari, dura e maschile, che consuma sesso scambiandolo per relazione, noncurante di una figlia in piena rivoluzione umana alle prese col divorzio dall’università per abbracciare l’attivismo sul cambiamento climatico, piano piano si trasforma in quello che era, prima del lutto in gioventù: un essere umano fragile e delicato. Per farlo, scenderà con il suo Caronte (il direttore dell’obitorio, con cui nasce un rapporto autentico nonostante la siderale distanza di classe) nei gironi infernali del suo passato e del dramma dei clandestini, leggendo per la prima volta il diario segreto della sorella e vagando tra le mense dei poveri e i dormitori frequentati dal giovane immigrato clandestino.

Anche questa volta la cifra soldiniana è evidente, a partire dalla tenerezza come leva lirica della narrazione (Pane e tulipani) e dalla fiducia totale nel potenziale umano (Il colore nascosto delle cose), fino alle relazioni che curano. Si aggiunge, però, un nuovo ingrediente, che è quello del destino, del caso: senza togliere niente all’intensità della narrazione, e senza funzionare come scusa o deus ex machina, il caso sembra piuttosto far parte di una senilità saggia, quel qualcosa di misterioso e magico che, nel bene e nel male, ci aiuta ad accettare e accogliere le cose della vita senza sentircene sopraffatti o responsabili.

Il tema più profondo di questo film e che parla direttamente alle nostre pance è per me però quello della responsabilità verso il prossimo (rappresentato dalla figlia Adele, in partenza per sei mesi come volontaria in Brasile), oggi ancora più impattante, data l’emergenza climatica e quella sanitaria che sta costringendo tutti e tutte a interrogarsi proprio su questa questione.

L’avvocata, infatti, mostra con le sue stesse azioni che anche se non c’è obbligo o perseguibilità penale, essere umani implica farsi carico delle conseguenze delle proprie azioni. Intendiamoci, non compare normatività alcuna, anzi, il sentimento dominante è la pietas, intesa come assoluzione piena per ognuno. Ma di certo la storia di Camilla Corti-Kasia Smutniak (scritta da Silvio Soldini con la consueta sodale Doriana Leondeff e da Davide Lantieri) è un esempio di grande impatto emotivo e di forte stimolo a fare lo stesso.

Bravissimo Francesco Colella, che interpreta il vitale direttore dell’obitorio, un uomo che una avvocata d’affari in un mondo fatto di uomini competitivi e senza orari ai cui vertici le donne si rarefanno non avrebbe mai guardato se non fosse stato capace di comunicare quel pacifico equilibrio a cui tutti aspiriamo, forse proprio grazie al corpo a corpo continuo con la morte. E mostruosamente brava Kasia Smutniak, di un’intensità mai vista.

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