Oggi ho la gioia autentica di incontrare Gabriele Di Luca, attore, regista e drammaturgo, che nel 2008 ha fondato, insieme a Massimiliano Setti e Luisa Supino Carrozzeria Orfeo, una delle compagnie – senza temere retorica – più originali e dissacranti del teatro nazionale. Reduci da iniziative innovative e meritatamente gettonate come Prove generali di solitudine e Periferie interiori, in attesa di ripartire con lo spettacolo Miracoli metropolitani, Carrozzeria propone una ulteriore sfida, e, attraverso Gabriele, scambia con noi punti di vista senza sconti sul panorama attuale del teatro italiano.

Nasce adesso A tavolino. Affinché la didattica teatrale possa acquistare nuovo sapore, come lo strutturerete?
A tavolino si struttura in un ciclo di serate online su alcuni dei temi fondamentali del processo teatrale, dalla drammaturgia alla formazione e alla costituzione di una compagnia. Ogni serata, dopo un’introduzione generale, lascia spazio a domande, riflessioni e ad un confronto attivo. Alla prima serata, dedicata alla drammaturgia, hanno partecipato una quarantina di persone selezionate ma le richieste sono state tantissime! La nostra iniziativa non vuole minare i progetti didattici altrui, ma essendo gratuita, integrarsi ad essi per creare complicità e sviluppare una politica inclusiva. Tutto questo perché crediamo che a dei giovani allievi o neo diplomati possa essere utile, al di là del percorso formativo che stanno percorrendo, confrontarsi con un gruppo teatrale, da anni inserito nel mondo del lavoro, che può raccontare loro più dettagliatamente alcune delle dinamiche in atto. Per noi è una buona occasione per conoscere meglio le realtà pedagogiche italiane attive e tenerci reciprocamente informati sulle diverse progettualità. Abbiamo contattato tutte le scuole italiane, private e pubbliche, territoriali e nazionali, perché a nostro avviso questo è il momento di lavorare insieme in un sistema, quello teatrale, che tende a rinchiudersi ogni volta su se stesso. C’è tanto sconforto, confusione e tanto bisogno di vicinanza… Per noi, è un esperimento, una sorta di censimento artistico e umano che ci aiuterà a capire quali sono le necessità dei giovani artisti di oggi.

Come immaginate cambierà – ove mai cambiasse – la narrazione teatrale post covid e pensate che questa fase creerà una sorta di selezione, naturale, piuttosto che una nuova unità tra soggetti artistici?
Accadrà che molti sentiranno la necessità di creare una sintesi artistica che indaghi quest’ultimo anno di pandemia: dal racconto della stessa, alle fratture tra il prima e il dopo, fino a immaginare gli scenari futuri, più o meno realistici o distopici. Sarà fisiologico per alcuni restituire al pubblico una sorta di bilancio delle vittime, intese come solitudini, disillusioni, perdite di lavoro, psicopatologie e fobie sociali, oltre che morti fisiche. La speranza è che ciò avvenga (da parte degli artisti) attraverso il linguaggio e la vocazione primaria del teatro, che da sempre si sottrae al mero fatto informativo, per esplorare il simbolo e la metafora, con l’obiettivo di scavare in profondità per rendere il fatto oggettivo in vita agita all’interno di una storia.
Troppe volte, secondo me, anche a livello cinematografico, si travisano alcuni presupposti fondamentali dell’arte e vengono presentati prodotti che descrivono semplicisticamente le situazioni attraverso i fatti. Il teatro, invece, deve maturare la consapevolezza che solo attraverso le storie complesse, buffe e strazianti degli esseri umani che hanno attraversato le pandemie, grazie all’indagine della loro intimità e dei loro desideri spezzati, si potranno raccontare le emergenze, riuscendo a restituirgli un impatto emotivo e condiviso. Al teatro non interessano mai i fatti, ma le persone che ne vengono colpite. Cosa ce ne frega del racconto di una tempesta di neve se nel mezzo della tempesta non sappiamo esserci un uomo in fin di vita che la sta attraversando per salvare un altro uomo? Altre volte, invece, accadrà che delle cose accadute verranno messi in scena solo gli aspetti più superficiali, ridicoli, atti a compiacere un immaginario collettivo già troppo inaridito e che avrebbe bisogno di essere rivitalizzato con intelligenza. Sto parlando, naturalmente, di quell’orrendo teatro commerciale o di tutte quelle declinazioni di cinepanettoni che hanno contribuito a portare questo paese dove si trova ora: molto in basso. Esiste un’enorme differenza tra una comicità intelligente atta a gettare luce sul reale, a stanarlo, a interrogarlo, e una comicità il cui unico scopo è ridacchiare mentre ci si ingozza di pop-corn. Per concludere, e per restituire un quadro non esclusivamente critico del contesto, vedranno la vita, per fortuna, anche alcuni progetti di grande interesse (pochi) che ci aiuteranno a lasciarci alla spalle con più consapevolezza l’ultimo anno. Ci sarà certamente una grande selezione naturale e, lasciatemi aggiungere, violenta e poco sana. Nelle occasioni pubbliche ci si riempirà la bocca di parole come solidarietà, sostegno, tutela dei giovani, nuovo patto generazionale, ma accadrà esattamente il contrario: a parte rare eccezioni virtuose, penso a quei teatri e artisti che hanno agito ispirandosi a principi di inclusione anche prima della pandemia, ognuno si farà i fatti propri, cercherà di riparare il tetto della propria casa dopo l’alluvione per riemergere più forte di prima. Questa riemersione, che avrà anche il carattere della competitività, sarà letta da molti come elemento di merito e di orgoglio perché, in questa società, il raggiungimento del risultato individuale a discapito del bene collettivo è diventato una virtù da premiare. In soldoni: ai grandi non interessa quasi mai dei piccoli, ma quasi sempre di giocare tra grandi e, ove è possibile, vincerli. Se ciò accadrà, se le nuove generazioni di artisti, i piccoli teatri, le compagnie emergenti, tutti coloro che hanno ancora bisogno di sostegno per riemergere verranno dimenticati, la colpa sarà primariamente dello Stato che, come un buon padre di famiglia, dovrebbe sempre porsi in un’ottica di superiorità morale e mediare tra l’egoismo dei singoli e gli interessi collettivi. Mi sono sentito sempre molto radicale rispetto a questo tema: sono a favore di leggi forti e non interpretabili, che garantiscano a tutti le possibilità economiche e le opportunità professionali per partecipare alla competitività del mercato con pari strumenti. Ma la verità, ahimè, prendetela come la mia personalissima opinione, è che allo Stato non interessino queste piccole cose. Lo Stato è interessato a raggiungere risultati che possano colpire con grandi titoli di giornale l’opinione pubblica (ritrovamenti archeologici, musei, opera lirica, cose importantissime, per carità), per dar lustro nei contesti europei al nostro paese e continuare a blaterare “Abbiamo il più grande patrimonio al mondo”, dimenticandosi sempre di dire che la nostra umanità, la nostra socialità e la nostra intelligenza emotiva… Ieri ho letto di un profilo bloccato su facebook per colpa di un adolescente che diceva: “Negri di merda, affondiamoli tutti, poi riconquistiamo l’Africa e ci scopiamo le loro madri negre.” Che dire? Che gli scavi di Pompei ci siano d’aiuto…

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