Belli, eh, Colapesce e Dimartino? Ora che in una settimana sono arrivati là dove in dieci anni di carriera non si erano mai neanche – volutamente? – avvicinati, e cioè a prendersi il disco d’oro con una guerra lampo, e a piazzare un tormentone killer per le radio, con tanto di coreografia (a proposito: chi ha detto, ancora, Franco Battiato?) che spopola sulle pagine degli influencer, ecco, ora tutti ne vogliono una parte.

È il loro momento, e Musica leggerissima, con l’inciso micidiale e un testo, sì, leggerissimo che parla di depressione e buchi neri sul pavimento, ne mostra il lato popolare più consapevole, frutto però di anni di affinamento. Perché, appunto, si tratta di un arrivo e non di una partenza. Tradotto: c’è un prima, che non è semplicemente quello che molti scoprono ascoltando oggi I mortali, il disco a quattro mani che hanno pubblicato lo scorso giugno, rimasto culto fino a febbraio e quindi esploso così. No: ci sono due carriere soliste fra le più oneste e brillanti della nostra musica d’autore, apprezzate dalla critica, di nicchia e sempre capaci di reinventare il pop in maniera alternativa, mai banale.

Poi, certo, che entrambi sappiano scrivere semplicemente belle canzoni è appurato anche dal fatto che sempre più spesso siano chiamati come autori per artisti mainstream – loro, che invece hanno le radici dall’ex sottobosco indie. Ma sono comunque i dischi indipendenti firmati in proprio le loro opere più interessanti, quelle su cui in tanti, facendo zapping curioso, si imbatteranno adesso per la prima volta, sulla scia del Festival; ergo, vale la pena farne una piccola bussola per orientarsi. Pure perché parliamo di album che hanno raccolto premi, oltre ad aver segnato l’Italia della musica alternativa dal 2010 a oggi. Fra centinaia di concerti nei club, parcellizzazione delle uscite, coerenza e un piccolo nucleo di fedelissimi al seguito.

Dei due, Colapesce – che si chiama Lorenzo Urciullo, è nato nel 1983 in provincia di Siracusa e ha un passato negli Albanopower – è il meno convenzionale e, a lungo, meno avvezzo alla tradizione cantautorale italiana. Più che i classici dei Settanta, infatti, nel suo mondo prosperano Lucio Battisti e Battiato (e relative sperimentazioni col pop) quanto i Talking Heads. E se il debutto di Un meraviglioso declino (2012) ammiccava anche a Fossati e Neil Young, con cantato leggero, echi folk e arrangiamenti indie-pop e rock stratificati (sentirsi: S’illumina e Satellite), il colpaccio è col bis Egomostro (2015), tutto sussurrato e imbevuto di elettronica da Radiohead con radici nel mediterraneo. Ed è stato lì che, alla passione per la melodia e le ballad d’autore (la minimale L’altra guancia), si sono aggiunte suggestioni à la Matia Bazar (Le vacanze intelligenti) e testi arguti e caustici, tra cui quello della stessa title-track e Maledetti italiani, fra i migliori della sua discografia. È nata un’identità, autentica e personale.

E a questa sua sorta di cinismo, invece, Dimartino – che in realtà sarebbe un gruppo, ma il riferimento è comunque al leader Antonio Di Martino, classe 1982 da Palermo – ha risposto con un disincanto romantico e post-moderno, per suoni ed estetica in zona Brunori Sas e comunque inserito nella leva di rinascita cantautorale di quegli anni (Dente, Le luci della centrale elettrica). Per quanto, comunque, sono il gusto per la melodia ariosa, l’eleganza e la cura per i testi ad averlo incollato da subito a Colapesce, e viceversa. I suoi primi album, Cara maestra abbiamo perso (generazionale, del 2010) e Sarebbe bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile (2012), rappresentano due facce della stessa medaglia, sempre pop e raffinata ma allo stesso tempo vicina al candore retrò dei 70s, con De Gregori e Dalla che definire riferimenti è riduttivo. Piccole storie di provincia e di adolescenza feroce, insomma, che diventano viatico di angosce esistenziali e passaggi ermetici, all’apice (anche stilistico) nel successivo Un paese ci vuole (sentirsi: Una storia del mare con Francesco Bianconi e l’epifania di Come una guerra la primavera), gioiello della casa del 2015.

Quindi, la svolta popolare. Per Colapesce arriva nel 2017 con Infedele che ok, da un lato è sperimentale (Pantalica e Compleanno risentono della regia cerebrale di Iosonouncane), ma dall’altro incarna soprattutto il momento in cui, con Ti attraverso e Totale, l’artista siciliano sbarca nella radiofonia, benedetta poi da Dimartino con Afrodite (2019), a scoprire sintetizzatori, ritornelli robusti e la produzione di Matteo Cantaluppi, non a caso demiurgo dei TheGiornalisti. L’opener Giorni buoni è quasi una prova generale de I mortali (2020), che segna il loro ingresso – come melodista atipico Lorenzo, come cantautore moderno Antonio – nel pop più o meno mainstream, chiaramente con filosofia à la La voce del padrone (mescolare alto e basso, stratificare, non svendersi) ma senza esimersi dal presente (le collaborazioni con MACE e Frenetik & Orang3) o dal gusto di mettere su una hit artigianale con Carmen Consoli come Luna araba. Che, la scorsa estate, un po’ a sorpresa si inserì nell’airplay fra i tormentoni dei colossi, scegliendo la musica d’autore e una struttura più complessa del solito all’immediatezza dell’it-pop. E segnando, soprattutto, il loro primo, vero successo di pubblico. Anche per questo, Musica leggerissima è un saggio di bella scrittura rodata da anni di esperienza, che non dà niente per scontato. Mica il colpo di genio venuto dal nulla, s’intende.

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