Ok, era quello che il popolo voleva e ha voluto fino all’ultimo. Perché le cinque ore della finale della 71esima edizione del Festival di Sanremo hanno certificato una cosa, questa: basta orchestrali che danno premi solo in base alla performance tecnica e senza cuore, basta coi giornalisti che hanno i loro cocchi e se li coccolano contro tutto e tutti, basta con la demoscopica messa lì, in apertura, con dei giudizi che valgono come un mandato esplorativo; si tenessero i loro riconoscimenti minori, questo Sanremo (non) è truccato e lo vince il televoto. Sono lontani i tempi in cui Ultimo – dato trionfatore dal primo minuto, forte di un pubblico fidelizzato e affezionato che gli altri neanche in tre carriere – finisce dietro a un Mahmood esordiente spinto in primis, dalla stampa (solo che poi Soldi è diventato un instant classic, mi sa che avevano ragione, eh?); qui chi sopravvive e chi muore lo decide la gente, e la classifica ne rispecchia i gusti e l’attivismo da telefonino.

Che dire: è stato il Sanremo di Chiara Ferragni che mobilita i responsabili di casa Ferragnez; c’era da aspettarselo, un impatto del genere solo i maliziosi non l’avevano messo in conto o forse avevano fatto finta di non vederlo, ma certo trovarsi con Fedez e Francesca Michielin che dal fondo vero della classifica, al netto di un Sanremo sottotono (lui) e di una canzone un po’ claudicante (entrambi), risalgono fino al secondo posto non può che spingere a una riflessione sul ruolo dei social in tutto ciò. Colapesce e Dimartino (loro, sì, grandi sorprese per un Paese reale che a lungo li ha ignorati) l’avevano intuito, e nel pomeriggio della finale avevano iniziato a giocarci taggando nelle stories account ultra-seguiti di Instagram (Kim Kardashian, Gianluca Vacchi e, ovviamente, persino la stessa Ferragni) e chiedendogli di raccoglie voti fra i propri follower. Si fa quel che si può.

Appunto, però, i due artisti siciliani – in gara con un pop d’autore killer che è stato puntualmente il capitolo migliore del Festival – sono stati gli unici in grado di sovvertire delle gerarchie affermate, insieme forse solo a La Rappresentante di Lista: partivano dal fondo, se non altro perché pressoché sconosciuti al grande pubblico, ed entrambi sono arrivati in alto giusto con la forza delle loro esibizioni e dei bei pezzi in gara. Anche se, comunque, la cosiddetta quota indie, che avrebbe dovuto segnare il Festival del rinnovamento, non ha sbancato fra il grande pubblico, nonostante alfieri con armi affilate come Willie Peyote. Perché, dicevamo, la classifica è stata un manifesto di ciò che la gente voleva in partenza, senza troppe sorprese – quelle, semmai, erano arrivate prima del televoto. Il volksgeist ha punito gli sconosciuti che non l’hanno fatto sobbalzare dalla sedia con qualche trovata (Fulminacci: meritava di più) e certificato la crisi del vecchio pop italiano di fronte al nuovo che avanza (Renga), rimanendo freddino di fronte al reiterarsi di certe invenzioni di scena sbiadite rispetto al passato (Max Gazzè e Lo stato sociale) e rivalutando una grande incompresa dagli esperti come Madame, che prima di quest’ultima tornata aveva raccolto poco a livello di voti rispetto al suo talento.

Ma, in ogni caso, è stato un podio di pronostici rispettati, di nomi che partivano favoriti perché hanno fan (tanti) che votano. Fedez e Francesca Michielin, appunto, ma anche lo stesso Ermal Meta, che dalla sua portava un pezzo assolutamente sanremese, la malizia di chi ormai gioca in casa e la capacità di intercettare pubblici diversi. Primo a lungo; cosa l’ha tradito, all’ultimo, facendolo scendere fino al bronzo? Anche qui: gli spettatori. Che nel momento decisivo hanno scelto i Måneskin anche sopra allo stesso Fedez, e che comunque prima di questa finale solo chi non aveva mai aperto Twitter o Tik-Tok poteva immaginare fuori dal podio.

Bravi, onore a loro. Solo una cosa: piano a parlare di rivoluzioni. La band di Damiano e soci è giovane e sa suonare gran bene, ma il loro rock non rappresenta il nuovo, né un ritorno dei chitarroni in vetta alle classifiche; semplicemente, sono dei freak all’interno del pop italiano, con un’immagine precisa che riesce a venderli come tali anche oltre la musica stessa, spigolosa quanto basta per differenziarsi eppure mai davvero alternativa. Ed è una formula, questa dell’outsider apparente, che a Sanremo spesso ha raccolto i frutti. La svolta, quella vera, sarebbe arrivata col trionfo del pop d’autore di Colapesce e Dimartino, persino con un podio di Willie Peyote o La Rappresentante di Lista. Questa, invece, è la vittoria di una band che, già in partenza, aveva tutti i favori del pronostico, che macina tantissimi ascolti, che aveva già sbancato X Factor e, quando si potrà, probabilmente riempirà gli stadi con merito. Non hanno sovvertito alcuna regola o tradizione, non sono di rottura; hanno, piuttosto, intercettato un sentire comune. Non è poco, anzi, ma è un’altra cosa. E del resto, l’abbiamo detto, è stato il Sanremo della gente.

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