Corpo a corpo col sionismo
Intervista a Sarah Sills, “artivist” newyorkese e leader di Jewish Voice for Peace (Voce Ebraica per la Pace) NY, che supporta la Palestina e si oppone al sionismo.
Intervista a Sarah Sills, “artivist” newyorkese e leader di Jewish Voice for Peace (Voce Ebraica per la Pace) NY, che supporta la Palestina e si oppone al sionismo.
Centinaia e centinaia di migliaia di persone, appartenenti alla comunità ebraica americana, si mobilitano da anni – e in questi mesi con più urgenza e dolore che mai – per chiedere al governo U.S.A. di non supportare più con soldi e armi lo Stato di Israele. Sono Jewish Voice for Peace, la più ampia organizzazione ebraica al mondo che è solidale con i Palestinesi e si oppone al sionismo. Vi appartengono anche arabə israelianə ed ebreə palestinesi, e lottano per tutte le minoranze, incluse quelle nere e queer. Definiscono l’attuale guerra di Israele a Gaza “una continuazione della Nakba e di 75 anni di occupazione israeliana e di apartheid”. Considerano il sionismo, come nella soluzione dell’ONU del 1975, “una forma di razzismo”. Contano 83 sedi sparse negli Stati Uniti.
“Ebreə che odiano sé stessə”: così vengono etichettatə dal resto delle comunità ebraiche per il loro appoggio ai diritti dei palestinesə. Quando non direttamente accusatə di antisemitismo.
Loro ribattono: “Se desideri una comunità ebraica con la giustizia al centro; se stai cercando di trasformare la tua rabbia e il tuo dolore in un’azione significativa e strategica: unisciti a noi, il tuo posto è qui.” E, soprattutto, lavorano per smuovere l’atteggiamento PEP’s, cioè di tuttə quegli ebreə liberali e progressistə che non riescono però a esprimere un giudizio sulla politica di occupazione di Israele.
“Improvvisamente ho capito che la mia identità ebraica importava,
che può e deve essere una leva per parlare dei diritti del popolo di Palestina”
Sarah Sills, 67 anni, si definisce una “ebrea anti-sionista che crede nella libertà, giustizia ed eguaglianza di tutti i popoli”. Leader del gruppo newyorkese di JVP, è un’”artivist”, cioè un’artista-attivista. E lo è da quando, a vent’anni, dopo aver studiato al college il Cinese, aiutava i sindacati a organizzare viaggi in Cina, intrigata dai modi con cui la rivoluzione, pur con le sue mancanze, aveva migliorato la vita degli svantaggiati. Negli anni Ottanta è in Salvador per aiutare cooperative di donne durante la guerra civile. Nei primi anni Novanta lavora per un giornale haitiano che appoggia Aristide e aiuta a documentare la sua ascesa come Presidente.
Ma trova veramente sé stessa, dice, dopo un viaggio in Palestina. Lì, vedendo la realtà dell’occupazione e le sofferenze di quel popolo, improvvisamente capisce che la sua identità ebraica importa, e può e deve essere una leva per parlare dei diritti del popolo di Palestina.
Quanto coraggio serve per prendere una posizione così drastica, chiedere lo stop alle armi a Israele, in una comunità come quella ebraica, che è tenuta insieme da forti legami culturali, eventi storici e traumi collettivi, di cui l’Olocausto è solo quello su più larga scala?
A me non è servito nessun coraggio. Sono cresciuta in una famiglia di ebrei laici che mi hanno educato al senso della giustizia. Ma nutro una profonda ammirazione per quanti hanno dovuto disimparare la narrazione del sionismo con cui sono cresciuti, e affrontano relazioni dure con la famiglia d’origine.
Quando è stato il tuo primo incontro con JVP?
Sono entrata in JVP nel 2013, dopo il mio viaggio in Palestina. All’inizio ero piena di dubbi, anche perché nelle organizzazioni di sinistra avevo spesso sperimentato una scissione fra il personale e il politico, mentre sono cresciuta con la convinzione che una persona dedicata a costruire un mondo migliore debba essere innanzitutto una persona migliore. Ecco, questa coerenza fra personale e politico è quello che ho trovato in JVP. E oggi mi piace accogliere con calore e interesse personale ogni nuova persona arrivi da noi.
“Spesso nelle organizzazioni di sinistra ho sperimentato una scissione fra il personale e il politico, ma io credo che chi si dedica a costruire un mondo migliore debba essere innanzitutto una persona migliore”
Come connetti arte e diritti umani?
Io mi considero un’attivista prima che un’artista, sono diventata una graphic designer già con l’obiettivo di servire la causa dei diritti umani.
JVP crede profondamente nel potere dell’arte di illuminare le menti e muovere i cuori all’azione. Connettere fra loro gli artisti, condividere nuovi film e opere teatrali sulla Palestina, pianificare l’arte necessaria per le nostre manifestazioni, dai testi dei cartelli alle musiche e ai canti, è fra i miei compiti. Un esempio è l’evento di “The Bubbie Brigade” (La Brigata delle Nonne Ebree, n.d.r.).
Nel 2015 nella sede newyorkese di JVP alcune persone si scambiano letture e parlano della loro relazione personale col sionismo. Esther Farmer, ebrea palestinese nativa di Brooklin e regista teatrale, Rosa Petchennsky, docente di Scienze Politiche, e Sarah Sills raccolgono quelle storie in un libro nel 2021, titolandolo “A Land With A People”, in chiara contrapposizione alla narrazione di Israele di “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, e poi le mettono in scena. Sul palco all’inizio ebrei (“Io non sapevo quanto io non sapevo”, dice ad esempio Tzvia Thier, ebrea rumena scampata a 6 anni all’Olocausto e cresciuta in un kibbutz, mentre rivela che solo dopo 59 anni di vita lì ha avuto la sua prima conversazione con una palestinese, e le si sono aperti gli occhi: “Se non vedi, non puoi sentire”, aggiunge), e una sola palestinese. Poi arrivano altri amici palestinesi a raccontare le loro storie, e il reading teatrale viene ospitato da teatri e da chiese, mai da sinagoghe, e all’inizio del Covid conta metà dei narranti ebrei e metà palestinesi. Il titolo: “Wrestling with Sionism”.
Alla fine della rappresentazione, invitavamo il pubblico a parlare con il più vicino sconosciuto in sala, di quello che avevano ascoltato e del proprio rapporto con il sionismo. Ogni volta si sollevava un brusio totale. La gente voleva parlare, ed era bello per loro ritrovarsi fra persone con la stessa forma mentale senza sentirsi a disagio nel condividere la loro visione con la famiglia o gli amici.
“Io non sapevo quanto io non sapevo”, dice ad esempio Tzvia Thier, ebrea rumena
scampata a 6 anni all’Olocausto e cresciuta in un kibbutz
I prossimi eventi?
L’ultimo è stato un incontro con Rashid Khalidi, il teatro era strapieno.
Lavoro strettamente anche con American Friends Palestinian House of Friendship,e sto organizzando con loro un evento che si chiamerà “Voice from the West Bank”, il 24 nov p.v.