Il paracetamolo, conosciuto principalmente col nome commerciale di Tachipirina è un antipiretico/antidolorifico tra i più diffusi ed abusati sul pianeta. Un tempo il paracetamolo veniva etichettato come facente parte degli analgesici del catrame di carbone.

A metà del XIX secolo, una persona che soffriva di dolori (mal di testa, mal di denti o artrite) aveva a disposizione farmaci come il laudano (un narcotico estratto etanolico dell’oppio grezzo, che come contropartita dava dipendenza, oltre a sonnolenza e stipsi) e l’acido salicilico, come derivato ​​fitoterapico della corteccia del salice. Solo dopo la sintesi dell’acido salicilico effettuata da  Hermann Kolbe nel 1859 diventò prodotto chimico e a basso prezzo, ma con il non indifferente inconveniente di un’alta tossicità. La forma chimica ampiamente usata derivata dall’acetile che si diffuse sotto il nome di Aspirina avvenne ben 30 anni dopo nel 1890.

La ricerca in quegli anni era verso vari tipi di analgesici, e fu così che, mentre si affermava sempre più l’uso del chinino, usato in Occidente fin dal 1640 per curare l’alta temperatura, la febbre e il mal di testa causati dalla malaria, Charles Gerhardt a metà del 1800 effettuò la fusione con KOH del chinino ottenendo la chinolina. Nel giro di pochi anni la chinolina divenne disponibile a buon mercato dalla distillazione del catrame di carbone. Era nato un potente analgesico.

La chinolina fu usata fino al 1900, ma in alcuni individui provocava cianosi, per un apporto inadeguato di ossigeno. Si cercarono quindi altri derivati della chinolina con effetti meno tossici, nasceva così la kairina.

In questo progredire delle ricerche nacque ad opera Emil Fischer nel 1883, la fenilidrazina. Seguì l’Antipirina o fenazone, che si dimostrò presto essere sia un antipiretico che un analgesico. 

Tuttavia, l’uso dell’Antipirina non era esente da rischi; in alcune persone causava agranulocitosi, ovvero soppressione del midollo osseo con conseguente perdita di globuli bianchi. 

Seguì nelle sperimentazioni di allora, che spesso erano affidate al caso, la scoperta di un’altra sostanza la fenacetina, che ha goduto di molta popolarità per quasi un secolo come rimedio da banco (spesso combinato in compresse con caffeina e aspirina) per mal di testa e postumi di sbornia. Con l’uso su larga scala si constatò la possibilità che potesse causare insufficienza renale e tumori renali in alcuni soggetti, per cui nel 1980 la fenacetina fu bandita nel Regno Unito.

Fu così che, per trovare una migliore alternativa alla fenacetina, nacque il paracetamolo, con una tappa intermedia però: l’acetanilide, commercializzata alla fine del 1800 in America e Europa col nome di Antikamnia (letteralmente contrario al dolore).


L’Antikamnia proposta in varie formulazioni e composizioni con diverse indicazioni terapeutiche fu oggetto di campagne pubblicitarie molto aggressive.

La pubblicità avveniva anche attraverso calendari alquanto macabri rappresentanti scheletri intenti al lavoro e al gioco.

col senno di poi possiamo ironizzare su quei calendari pubblicitari a dir poco profetici

Le varie specialità in cui era proposta l’Antikamnia comprendevano sostanze farmacologicamente molto potenti come la codeina, il chinino e a volte anche oppiacei, aggiunte allo scopo di potenziarne gli effetti antidolorifici, minimizzando quelli tossici. Molti furono i casi di intossicazione severa, spesso fatale.

Messa da parte la acetanilide si giunse alla sintesi di un prodotto senza dubbio meno tossico, l’acetaminofene, che in seguito assunse il nome di paracetamolo pubblicizzato su larga scala da James Roth, un gastroenterologo statunitense, che lo contrappose all’aspirina come alternativa più sicura.

Roth era certo del successo e di una posizione di rilievo nella farmacopea per il paracetamolo in base alla sua tossicità inferiore rispetto all’aspirina. Tuttavia, il tema ricorrente nella farmacologia clinica è che il farmaco miracoloso del giorno spesso dimostra di avere, nel tempo, diversi effetti avversi. A distanza di oltre 50 anni, i limiti del paracetamolo sono ora riconosciuti. In caso di sovradosaggio, il paracetamolo può causare danni al fegato gravi e talvolta fatali.

In passato, il paracetamolo è stato classificato come farmaco antinfiammatorio non steroideo insieme all’onnipresente aspirina e alla potente indometacina. Il meccanismo d’azione di tutti questi farmaci era comunque sconosciuto.

Una luce nella ricerca venne nel 1971: Sir John Vane scoprì che l’aspirina inibiva un enzima, la cicloossigenasi (COX), cruciale per la conversione dei fosfolipidi in prostoglandine e trombossani. 

L’anno successivo lo stesso Vane verificò che il paracetamolo inibiva l’attività della COX nell’omogenato del cervello del cane, ma non nel materiale derivato dalla milza. Dimostrazione del fatto che il paracetamolo ha effetto direttamente sul cervello nel sedare i dolori e non nelle zone periferiche interessate dal dolore.

Venendo ai giorni d’oggi il paracetamolo è diventato il farmaco da banco tra i più venduti a livello planetario tanto che in occasione della pandemia da Covid persino il Papa lo ha fatto mettere nel pacco natalizio dei dipendenti dello stato Vaticano al posto del tradizionale panettone. 

Overdose da paracetamolo

Pochi sanno che il numero di morti per overdose da paracetamolo è altissimo. L’avvelenamento da paracetamolo causa danni a livello epatico ed è una delle più comuni cause di avvelenamento nel mondo. Negli USA e nel Regno Unito la più comune causa di insufficienza epatica fulminante è dovuta proprio al paracetamolo.

Il farmaco, che come abbiamo visto è un derivato del catrame del carbone, viene metabolizzato nel fegato. Il paracetamolo è un potente ossidante che consuma le scorte del nostro più importante antiossidante: il Glutatione (GSH). 

Quando il glutatione scarseggia, il paracetamolo svolge la sua potente azione epatotossica.

Una parte del farmaco viene metabolizzata in N-acetil-benzochinoneimina che può essere inattivata dalla reazione con il glutatione, ma quando le riserve di questo sono diminuite o esaurite, l’immina attacca le proteine cellulari, distruggendo il fegato e causando la morte. L’antidoto è la N-acetilcisteina che andrebbe somministrata prima che si verifichi un danno epatico, in quanto fornisce una fonte di cisteina per consentire al corpo di produrre più glutatione, ripristinare il suo meccanismo protettivo e salvare la persona da un esito potenzialmente fatale del sovradosaggio.

Ed è proprio sul consumo del glutatione epatico da parte del paracetamolo che dovremmo soffermare l’attenzione nel suo uso improprio nelle malattie virali ed in particolare nel Covid 19.

Il substrato scientifico che sconsiglia l’uso del paracetamolo nei pazienti con Covid è l’inibizione e lo svuotamento delle riserve di glutatione che è un antiossidante implicato nelle difese antivirali. Proprio due ricercatori italiani hanno pubblicato un interessante articolo dove si spiega come durante le malattie infettive il glutatione è impegnato ad eliminare le molecole che producono uno stress ossidativo. Bassi livelli di GSH possono favorire la progressione dell’infezione da Covid-19, specialmente negli stadi più avanzati della malattia.

Il Virus all’interno delle cellule umane trasmette, attraverso un enzima transferasi, il proprio materiale genetico alla nostra entità genetica (RNA-DNA) per farsi produrre materiale proteico pro virale indispensabile alla sua replicazione. La presenza nelle cellule umane del Glutatione (GSH) contrasta efficacemente l’indirizzo metabolico del Coronavirus e del citoplasma ossidato dai ROS. Il Glutatione si lega all’enzima transferasi generando la Glutation-B-Transferasi non più utile al virus per far circolare nella cellula il suo materiale genetico; il Coronavirus muore per mancanza di apporto di materiali indispensabili alla sua vita e replicazione endocellulare.

Da qui l’importanza del Glutatione nella difesa immunitaria. Occorre inoltre tener presente che le riserve di glutatione diminuiscono con l’avanzare dell’età.

L’uso del paracetamolo dunque nella malattia virale è controproducente, non serve infatti un’azione antipiretica ed antidolorifica, ma un’azione antinfiammatoria che è esplicata da tutta un’altra categoria di farmaci.

Anche l’uso del paracetamolo per lenire possibili rialzi febbrili da vaccino, per le stesse ragioni fin qui esposte, è improprio mentre è più corretto l’utilizzo di un antinfiammatorio (ibuprofene a piccole dosi).

Ricordiamo che nella maggior parte dei paesi il Paracetamolo viene venduto liberamente ed è ritenuto un farmaco ben tollerato, con tutti i rischi che questo comporta.

Ma esaminiamo quanti altri danni può fare questo derivato del catrame di carbone.

Esistono prove epidemiologiche convincenti che il rischio di asma può essere aumentato con l’esposizione al paracetamolo nell’ambiente intrauterino, nell’infanzia, nella tarda infanzia e nella vita adulta. È stata osservata anche un’associazione dose-dipendente in questi diversi gruppi di età in diverse popolazioni in tutto il mondo. È stata anche dimostrata un’associazione tra l’uso di paracetamolo sia nella rinocongiuntivite che nell’eczema. 

Esiste una plausibilità biologica che l’uso di paracetamolo porti livelli ridotti di glutatione con conseguente aumento dell’infiammazione indotta da ossidanti e risposte di tipo 2 di T-helper potenzialmente migliorate. A livello di popolazione, l’uso diffuso del paracetamolo potrebbe spiegare, in una certa misura, l’aumento dell’asma e dei disturbi correlati, in particolare nei paesi di lingua inglese, che hanno un’alta prescrizione pro capite del paracetamolo. Esiste anche un’associazione temporale tra le tendenze internazionali di aumento dell’uso di paracetamolo e l’aumento della prevalenza dell’asma negli ultimi decenni. Sono noti diversi meccanismi fisiopatologici che potrebbero spiegare questa reazione avversa del paracetamolo:

  • il blocco della produzione di glutatione,
  • la diminuzione del rilascio di citochine Th1 (protettive), che vengono normalmente prodotte durante la febbre, e che porterebbe poi ad una predominanza delle citochine Th2 (facilitanti le allergie),
  • l’effetto citotossico del paracetamolo sugli pneumociti (cellule che costituiscono l’epitelio degli alveoli polmonari),
  • l’effetto modulatore sull’attività della mieloperossidasi (enzima dei globuli bianchi che produce radicali liberi dell’ossigeno per distruggere particelle estranee),
  • il possibile effetto antigenico del paracetamolo mediato dalle IgE (anticorpi prodotti in condizioni allergiche).

Anche l’aumento del rischio di esiti negativi dello sviluppo neurologico a seguito dell’esposizione prenatale al paracetamolo è stato segnalato da uno studio statunitense.

Uno studio del The New Zealand Asthma and Allergy Cohort Study Group pubblicato da Wickens e Colleghi nel 2010 (Nuova Zelanda) dimostra che il paracetamolo ha un ruolo nello sviluppo dell’atopia e nel mantenimento dei sintomi dell’asma.

Anche lo studio del prof. Beasley e Colleghi del Medical Research Institute (sempre Nuova Zelanda) pubblicato nel 2008 evidenzia come l’uso del paracetamolo nel primo anno di vita e nella tarda infanzia sia associato al rischio di asma, rinocongiuntivite ed eczema all’età di 6-7 anni. Lo studio mette in guardia sull’esposizione al paracetamolo come fattore di rischio per lo sviluppo dell’asma nell’infanzia.

Per approfondire:

https://www.pharmweb.net/pwmirror/pwy/paracetamol/pharmwebpic.html

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