Tutti scriviamo almeno un po’ di Antropocene, perché è di moda e perché l’Antropocene tutti, un po’, ce lo sentiamo addosso e anche dentro. L’Antropocene sarebbe questa nuova epoca in cui nessuna entità, processo o sistema terrestre sfugge all’influenza trasformativa delle cosiddette attività umane, con la quale formula non si intendono i baci tra innamorati o i sogni che facciamo ad occhi chiusi o aperti, ma tutte quelle attività che dipendono, da due secoli a questa parte e in particolare dal dopoguerra in poi, da catene di approvvigionamento sempre più estese e tecnologizzate la cui linfa energetica è un torrente planetario di combustibili fossili, un torrente di sole ingabbiato dal tempo geologico nella materia più evoluta e completa che ci sia su Terra, ovvero la vita morta. Migliaia di miliardi di miliardi di singole piante, animali, funghi, batteri, le loro fibre, organi, cornee, antenne, vertebre, radici, semi, spine. Questo ed altro in forma fossile scorre e brucia nei condotti metallici che suturano Terra e confondono i confini teorici tra stati e mercati, leggi e soldi, fino a giungere veloci ad alimentare lo schermo su cui sto scrivendo queste parole sull’Antropocene.

Che, messa così, me le sarei anche potute risparmiare. Dico, se ogni cosa che faccio costa un pezzo di Terra, devo selezionare molto bene ciò che faccio, e alzare la qualità di parecchio. Se ogni cosa che faccio costasse un pezzo di Marte, avrei gli eserciti e i servizi segreti sotto casa. Terra invece è a buon mercato. La posso usare per sproloquiare, su uno schermo luminoso tutto mio, di come Terra non dovrebbe essere a buon mercato. La posso letteralmente bruciare in chiacchiere inutili.

Cosa sta succedendo
al mio corpo e a Terra?

A questo punto, considero più utile chiedermi cosa, in questa nuova epoca, renda le mie chiacchiere inutili ai miei stessi occhi. Cioè: invece di sproloquiare su Terra nell’Antropocene, posso considerare la mia propria situazione su Terra nell’Antropocene – io quale questo esemplare di questa specie favolosa che trasforma Terra nell’Antropocene. E invece di sproloquiare su cosa io possa fare per proteggere l’ambiente con piccoli gesti quotidiani nonostante le scale della nuova epoca siano planetarie e millenarie, e il torrente di vita morta che brucia tutto intorno mi sommerga fino alla gola fasciandomi nella plastica, posso chiedermi perché io stia perdendo fiducia in me stesso in questo modo, cosa mi stia depotenziando, per quale motivo io ormai pensi e senta che le mie siano tutte chiacchiere inutili.  

Io so per certo, perché ho letto di studi condotti utilizzando tecnologie rivoluzionarie e programmi informatici potentissimi e perché vedo molte immagini e leggo molte parole e ascolto molte voci e suoni attraverso la mente artificiale nel mio telefono, che generalmente si era sottovalutata la potenza di una moltitudine recalcitrante ed esuberante di entità, sistemi e processi non umani che include di tutto, dai virus microscopici a cambiamenti atmosferici planetari, e agisce in modo non intenzionale ma sistemico e può farlo, è chiaro, in modo non-filantropico. Questa moltitudine è svelata nell’Antropocene. Ne risulta questa sensazione di essere cavie di un oscuro scrutare, il disagio all’idea che Schopenhauer ci avesse preso, e questo odore, acido per gli occhi, delle muffe pulsanti di Lovecraft.  

E va bene – straniante, sicuramente, merita una mostra, un convegno, un corso di studi, una rassegna, un ciclo di incontri, un nuovo modo di intendere la storia – ma non è questo. E’ piuttosto che quella moltitudine non umana dovrebbe dissolversi, regolarmente come ogni altra cosa si è sempre dissolta in passato, di fronte alla mia alta idea di me stesso quale essere pensante. Da sempre quello che non posso gestire posso ordinarlo nel pensiero, la cosiddetta consolazione della filosofia, come ci insegna Boezio in quel suo grande classico del pensiero. Ma io come mi consolo, adesso?

Passi pure spaventarsi delle piogge, delle febbri e degli incendi dell’Antropocene, come ci accade se leggiamo La terra inabitabile di David Wallace-Wells (edizioni Mondadori) ma ritrovarmi a percepire le mie stesse frasi, i miei pensieri, le mie ragioni come chiacchiere inutili, è gravissimo. Mi sto depotenziando. Perdo smalto, prendo pause, cerco scuse, fatto sta che io ormai quando mi sento parlare non mi credo.

Ecco come penso sia andata. Semplicemente, mi ingannavo: questo esemplare umano che ordinava le cose col pensiero non c’era neanche prima. C’era invece un’altra moltitudine che ero io, un coacervo mobile di sensazioni e idee, perlopiù confuse e mutilate ma in qualche maniera ordinabili immaginificamente grazie ad una serie di altre superstizioni e storielle personali e collettive. Per quanto imbrogliato e viscido il coacervo, non era di proporzioni planetarie. Il mio corpo era un campo grande e la mia mente un teatro aperto, ero una gragnuola di sensazioni e idee concatenate in vari modi in numeri e composizioni pari a quelle delle cose che incontravo: ma queste, pur essendo tantissime, non erano quante sono adesso.

Ora io ho sensazioni travolgenti nei supermercati e infinite idee fluorescenti e saettanti che mi arrivano da ogni angolo del mondo ad ogni istante attraverso le menti artificiali che porto con me ovunque. Compro manghi argentini già sbucciati e tagliati, provenienti da coltivazioni finanziate da fondi olandesi, confezionati in Vietnam in plastica indiana, pubblicizzati da agenzie di comunicazione americane, rivenduti nel quartiere Monteverde a Roma tra le urla delle cicale e dei pappagalli selvatici. Mangio tutto questo. Nel farlo ingurgito anche una sequela di idee completamente dissociate dal mango che intanto mi gonfia le guance mentre mastico: mi si notifica sullo schermo, in rapida sequenza, dell’inizio della nuova era spaziale inaugurata da miliardari pronti per nuove avventure e di come sul centro della Cina si sia aperto il cielo e milioni di persone siano nel fango mentre io mangio il mango. Tutto mi riguarda, tutto mi costituisce in modo sincopato, ma di praticamente nulla ho io una comprensione chiara e distinta, solo opaca, mi sfrangio in pezzi di corpi e idee slegati, fortuiti, mentre assorbo l’intera sfera pubblica e poi la sfera cosmica. Prendo un analgesico la cui composizione incorporo sulla fiducia, perché non ho contezza di come si articoli il processo di svestire i neuroni dall’emicrania. Il mio umore cambia a mezzo di agenti esterni, che si cibano di me come io mi cibo di pezzi di Terra.

In tal modo individuato e de-individuato nell’infrastruttura della catena di approvvigionamento globale, il corpo dell’esemplare della specie che io sono è divenuto più capace

“di agire e di subire le azioni di molte cose allo stesso tempo, e così la sua mente di percepire molte cose allo stesso tempo” (Spinoza, Etica, 2pI3s).

Ma le azioni e sensazioni del corpo sono adesso maggiormente e profondamente dipendenti dalle azioni di molti altri corpi su scala planetaria, e questo fa sì che la mente perda capacità di comprensione, che tutto appaia come una moltitudine di esiti senza cause. E a quel punto è chiaro come qualsiasi cosa io possa dire o scrivere saranno chiacchiere inutili ai miei stessi occhi. Perchè io, in verità, non so niente ormai. Il corpo che chiamo mio non è fatto di me ma di pezzi di Terra che io inglobo perlopiù senza volerlo e senza saperlo. La mente che credevo mia è di tutti, popolata da tutto.   

Chiacchiere inutili. La moltitudine non umana dell’Antropocene rumoreggia sotto il pavimento e la moltitudine che io sono nell’Antropocene mi impedisce di pensare a questo o altro chiaramente e distintamente. Sono adesso solo Terra, come un ragno.

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