La famiglia Wainwright è senza dubbio unica nel panorama musicale mondiale.

Loudon Wainwright III – folk singer americano – sposò Kate McGarrigle (del duo canadese McGarrigle Sisters, formato da due sorelle) e dal loro matrimonio sono nati Martha e Rufus. In Italia solo quest’ultimo ha raggiunto un certo successo, mentre purtroppo gli altri sono noti sostanzialmente solo ai patiti del genere folk.
Un vero peccato, perché ognuno di loro meriterebbe di essere ascoltato, avendo tutti pubblicato numerosi album di ottimo livello artistico. In questo mio quarto episodio dedicato alla malinconia elevata a canone estetico, ho scelto l’album di esordio di Martha Wainwright (dal titolo omonimo) in cui, come da tradizione familiare, apparecchia sul tavolo tutti i suoi sentimenti, frustrazioni, passioni e perfino la sua rabbia. Il tutto equamente distribuito in 13 splendidi brani.

Una delle cose che ha caratterizzato diversi album dei Wainwright è il fatto di dedicarsi reciprocamente delle canzoni come se fossero vere e proprie lettere in musica e parole, senza timore alcuno di mettere a nudo quell’intimità familiare che molti artisti spesso tendono invece a non esporre al pubblico. E così, fra i brani certamente più forti troviamo proprio Bloody mother fucking asshole il cui titolo sarebbe già da solo sufficiente a stendere un elefante, figuriamoci un padre, a cui è direttamente indirizzata. Martha scatena tutte le sue rivendicazioni possibili e immaginabili verso il genitore, colpevole di essere per lei e il fratello da sempre assente, soprattutto dopo il divorzio con la mamma (al riguardo, ascoltate la triste Your mother and I del citato Loudon Wainwright III dedicata ai figli ancora piccoli dopo il triste evento) limitandosi, appunto, a scrivere brani ispirati dai loro rapporti, senza sostanzialmente esserci mai. Se vogliamo, quindi, una sorta di pan per focaccia tradotto in musica.

Gli altri brani decisamente sopra la media, comunque elevata, sono diversi come l’intensa ballata Don’t forget (nella quale Rufus è ai cori, elevando con la sua voce sullo sfondo il brano, e la madre suona il banjo) che descrive i sentimenti nei confronti di un uomo, usando l’allegoria delle stagioni e delle temperature che si fanno sempre più gelide, per delineare un amore  che, dopo il caldo della passione, svanisce lasciando solo il freddo nel cuore (Summer comes, and rain falls away but the very next day it seems the snow comes to stay…”). C’è poi la radiofonica Far away, piazzata proprio in apertura, che ha una melodia molto originale ancorché non semplice, mentre nel testo sembra implorare – ma senza speranza – il suo partner di sollevare la sua situazione sentimentale disastrosa (I have no children, I have no husband, I have no reason to be alive…oh give me one). Ma il pezzo più intrigante del disco è forse il singolo When the day is short che trascina l’ascoltatore in una nuova diatriba con un amante col quale il rapporto è ormai finito. Musicalmente è anche il più rockeggiante, mentre ovunque nel disco dominano suoni acustici.

Termino suggerendo di scoprire nel dettaglio tutta la forza e la sensibilità di questa cantautrice che ha tentato di ritagliarsi uno spazio artistico tutto suo, stretta nella ingombrante morsa dei due uomini di casa, certamente più mainstream, ma non per questo a lei superiori. Ascoltare per credere.

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