Questo libro me l’ha portato in dono un’amica ebrea americana, di passaggio per l’Italia e a casa mia, e questo gesto mi ha toccato il cuore. Era come se volesse, prima di entrare ospite a casa mia, chiedere scusa per tutto quello cui il mondo è costretto ad assistere, per colpa di un governo criminale in Israele e per colpa della politica degli Stati Uniti, di cui è cittadina. Non che lei ne abbia alcuna responsabilità, al contrario: lei da sempre fa parte degli attivisti di JVP, l’organizzazione di ebrei americani che solidarizzano con i Palestinesi e chiedono per loro libertà e giustizia.

Ma ecco, sentiva il bisogno di questo mea culpa per qualcosa di cui non ha nessuna colpa; anzi, ha meno colpa di ognuno di noi, che da Gaza riceviamo informazioni ogni giorno più insostenibili e ne rimaniamo paralizzati, mentre lei è un’attivista coraggiosa che non si è mai risparmiata.

“Una falsa innocenza confonde la dominazione con la difesa di sé”

Essere ebrei dopo la distruzione di Gaza è un libro estremamente potente, di una chiarezza morale nettissima. Peter Beinart, giornalista americano e commentatore politico, ebreo praticante, i figli frequentanti una scuola ebraica, inizia la sua analisi scrivendo, senza mezzi termini:

“Noi ebrei non siamo le eterne, virtuose vittime della storia. Questa falsa innocenza, che pervade la vita ebraica contemporanea, confonde la dominazione con la difesa di sé. Esenta gli ebrei dal giudizio esterno. Offre a degli essere umani fallibili un lasciapassare senza fine”. 

E propone una narrazione che tralasci una volta per tutte la postura della vittima; anzi: esige una narrazione diversa, che salvi l’ebraismo dalle distorsioni di questi tempi.

Peter Beinart nel suo “The Beinart’s Notebook”

Peter Beinart, nonno materno proveniente dalla Russia, nonna materna dall’Egitto, nonni paterni lituani, americano di nascita, ha trascorso gli anni dell’infanzia nel Sudafrica dell’apartheid.

“È iniziato tutto” ricorda, “quando iniziai a prendere in considerazione chi altro era presente in casa con noi. Chi si aggirava al margine, in cucina o nel giardino, chi si occupava delle mansioni servili. Erano persone legalmente inferiori, cosa che mi dicevano fosse necessaria. Perché, (dicevano), se avessero potuto ci avrebbero ucciso.” 

E non esita a riprendere lo stesso termine apartheid per la condizione dei Palestinesi in Israele, che sono legalmente senza tutele e di fatto considerati necessariamente inferiori, e necessariamente oppressi, per questioni di sicurezza.

Il libro riprende la storia da prima del 1948, disegna una traiettoria della politica israeliana sempre più stringente negli anni, mentre rimanevano inascoltati i tentativi di fare chiarezza da parte di intellettuali e generali israeliani, rabbini, storici e commentatori ebrei della diaspora. 

Quando Moshe Dayan disse: “Non facciamo ricadere la colpa sugli assassini”

Beinart racconta ad esempio che quando, nel 1956, fu uccisa dai Palestinesi una giovane guardia di sicurezza in un kibbutz vicino alla Striscia di Gaza, l’allora capo di stato maggiore Moshe Dayan pronunciò un necrologio incredibilmente onesto:

“Oggi non facciamo ricadere la colpa sugli assassini”, dichiarò. “Per otto anni sono stati chiusi nei campi profughi di Gaza, e ci hanno guardato trasformare le terre e i villaggi in cui vivevano loro e i loro padri nella nostra proprietà.”

Il libro avverte che giustificare l’oppressione dei Palestinesi con la necessità di sicurezza di Israele è una follia suicida, che porta solo al perpetuarsi dell’insicurezza:

“La resistenza palestinese precede lungamente Hamas e di sicuro le sopravviverà. E più brutale sarà il comportamento israeliano, più è plausibile che lo sarà la resistenza”. 

Ricorda che negli anni Settanta, nei suoi scritti sulla resistenza armata palestinese, l’intellettuale israeliano Yeshayahu Leibowitz avvertiva che “un regime coloniale non può che dare origine al terrorismo”.

In altre pagine Beinart analizza la natura dell’antisemitismo corrente in America e il connubio fra la difesa a tutti i costi di Israele e il Maga di Trump, parlando per entrambi di “tribalismo”. Riflette anche sul vero significato religioso del concetto di “popolo eletto”, o sull’intenzione dell’espressione “dal fiume al mare”, così come nasce in un saggio del 1970 di Fatah.

“Dobbiamo contribuire, insieme ai Palestinesi, a liberare il mondo”

Tutto il libro è sostenuto da una ricca documentazione che denuncia la politica coloniale di Israele e alla fine fa riferimento a 40 pagine di note bibliografiche. Ma soprattutto è scritto col cuore. “Liberando l’oppresso, si libera anche l’oppressore”, scrive Beinart e chiude con una frase piena di speranza: “Dobbiamo liberarci dal suprematismo e contribuire, insieme ai Palestinesi, a liberare il mondo”.

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