Tra la popolazione degli Inuit dell’Artico i neonati erano considerati la reincarnazione di individui vissuti in precedenza. Il caso degli Inuit viene trattato da Mila Busoni nell’ambito del suo discorso riguardante la contrapposizione sesso/genere in Genere, sesso, cultura: uno sguardo antropologico (2016). Presso questa popolazione, alla nascita di un nuovo individuo si determinava attraverso delle cerimonie sciamaniche qual era la persona che il nuovo nato veniva a rimpiazzare e, una volta determinato di chi si trattava, il nuovo individuo doveva assumere il nome, la personalità sociale e le precedenti relazioni parentali dell’individuo defunto. Questa era la credenza delle «anime-nome», ovvero anime che, secondo la cultura Inuit, prendevano l’iniziativa di tornare in vita. I nomi Inuit non avevano specificazioni di genere, così poteva capitare che ad un individuo nato con un sesso femminile venisse dato il nome avuto dalla persona che veniva a rimpiazzare, anche se questa era di sesso maschile. Ed era sempre basandosi sull’anima-nome che il nuovo nato veniva educato: in altre parole, se il nuovo individuo era di sesso femminile e veniva a rimpiazzare, ad esempio, il nonno, veniva allevato come maschio e svolgeva attività normalmente dedicate agli individui di sesso maschile. Tuttavia, gli individui il cui sesso non corrispondeva a quello dell’anima-nome, una volta giunta la pubertà, venivano educati un’altra volta, così che apprendessero i comportamenti, gli atteggiamenti e le attività appartenenti al sesso con cui erano nati. Come è facile immaginare, questo mutamento repentino di identità e abitudini era un processo doloroso, traumatico e difficile da accettare ed assorbire, soprattutto per quegli individui che passando dall’essere uomo all’essere donna andavano incontro ad un abbassamento di status.  

Un altro aspetto molto particolare della cultura inuit ha a che fare con l’indissolubilità del matrimonio. Remotti in Contro Natura: Una Lettera Al Papa (2010) racconta di come il divorzio in questa popolazione non sia accompagnato da atti ufficiali, ma consista semplicemente nell’interruzione della convivenza e dei rapporti sessuali. La cosa che però più colpisce, è il fatto che tra gli Inuit il divorzio non viene vissuto come una tragedia, ma è un qualcosa di completamente normale (infatti nella quasi totalità dei casi i matrimoni inuit terminano con un divorzio). Tuttavia, nonostante sia molto probabile che in questa società due individui arrivino a terminare la propria relazione matrimoniale, il rapporto che si viene a creare tra questi, una volta stabilizzato, dura per tutta la vita. Ciò significa che il divorzio, pur essendo comunissimo nella loro cultura, non ha il potere di terminare completamente il rapporto, ma può solamente «disattivarlo». Inoltre, questo rapporto può essere riattivato in qualsiasi momento qualora i due coniugi lo volessero e, aspetto ancora più importante, un eventuale ri-matrimonio non viene a sostituire il matrimonio precedente, bensì vi si aggiunge, generando una situazione di matrimoni plurimi. Una volta creatasi una situazione di ri-matrimonio gli Inuit hanno due possibilità: evitarsi, oppure, far entrare le due nuove coppie in un rapporto positivo in cui non vi sono gelosie e antagonismi. Il modello su cui si basa la seconda opzione è quello del co-matrimonio, in cui le due coppie, pur abitando in due case differenti, decidono di scambiarsi i partner sessuali per un certo periodo. Questo scambio sessuale, che può anche non ripetersi, ha lo scopo di creare un effetto di stabilizzazione tra le due coppie: gli uomini entrano così in una relazione di «co-mariti», mentre le donne in una relazione di «co-mogli», dando vita così ad un rapporto basato su un forte legame di amicizia e di reciproco aiuto.

Sul tema del matrimonio consiglio l’ottimo articolo di Lorena Spampinato, pubblicato all’interno della rivista Rewriters (https://rewriters.it/signorina-istruzioni-per-un-matrimonio-femminista/).


Condividi: