Riflettendo sull’ennesima proposta di matrimonio da parte dell’editore George Putnam, Amelia Earhart, pioniera dell’aviazione e protofemminista, scrisse nel 1923 queste parole al futuro marito:

“Caro GGP, ti devo ribadire quanto sia grande la mia riluttanza al matrimonio, la mia sensazione di mandare in fumo svariate possibilità nel lavoro, per me la cosa più importante di tutte. Penso che non ci sia atto più sciocco che io possa fare. So che guadagnerò qualcosa in cambio, ma non ho il coraggio di guardare avanti. Sulla nostra vita insieme voglio che tu capisca che non ti terrò a me con nessun tipo di medievale codice di fedeltà, né mi voglio considerare legata a te in modo simile.
Ti prego di non permettere che ci intralciamo a vicenda nel lavoro o nel gioco e non permettere al mondo di vedere le nostre gioie o i nostri disaccordi privati.

In questo rapporto potrei avere bisogno di un luogo in cui poter essere me stessa, di tanto in tanto, perché non posso garantirti di resistere senza sosta in una gabbia, per quanto possa essere attraente. Devo estorcerti una promessa crudele, ovvero che nel giro di un anno mi lascerai andare se non troveremo la felicità insieme. Cercherò di fare del mio meglio in qualsiasi modo e darti quella parte di me che conosci e che sembra tu voglia”.

I due si sposarono poco tempo dopo con una cerimonia molto intima, quasi segreta. Quel giorno, quando il celebrante si rivolse a Earhart chiamandola signora Putnam, lei lo corresse subito: “Per favore, signore, preferisco signorina Earhart”.

Di signorine e di matrimonio parla il libro di Chiara Sfregola, Signorina – Memorie di una ragazza sposata (Fandango Libri). Un testo a metà tra un saggio e un memoir che a partire dall’esperienza personale dell’autrice, lesbica e moglie, apre a ragionamenti profondi sull’istituzione più antica del mondo.

I temi in gioco sono moltissimi: ci sono i conflitti interiori e le immagini archetipiche messe in campo dal matrimonio tradizionale, da sempre strumento di ridimensionamento delle libertà femminili e rito di trasmissione dei privilegi maschili. Ci sono le posizioni femministe e la sfiducia sistemica verso quella che Simone de Beauvoir ha definito un’istituzione originariamente corrotta. C’è il peso sociale da cui il matrimonio non riesce a emanciparsi, i giudizi non richiesti, le gabbie delle aspettative. Ci sono le battaglie dei movimenti LGBT+, e tutte le domande attorno al perché le coppie omosessuali si siano interessate così tanto a un’istituzione antiquata e in crisi. C’è l’idea romantica della condivisione, della progettualità amorosa.

C’è anche, soprattutto, una sfida di senso che tira le fila di tutto: è possibile rinegoziare le vecchie formule? Giocare a riempire le parole di significati nuovi? È possibile ricominciare? Smantellare, reinventare tutto. Ripensare il matrimonio partendo da quell’unico vero motore, che è il sentimento, che sono le persone. Trasformarlo in luogo di possibilità, di incontro, di connessioni.

Non subire il peso dei racconti collettivi, ma creare narrazioni nuove, nuovi intrecci. Decidere di fare spazio a ciò che ci migliora, a ciò che ci  somiglia. Non più sistemi rigidi e esclusivi, ma fluidi, senza imposizioni o gerarchie, giocati su regole e variabili da negoziare ogni volta.

E non per favorire il per sempre o per chiudere il ventaglio dei problemi e dei ripensamenti che di certo non mancheranno. Ma per riprenderci il diritto di disappartenere – a qualcuno, a qualcosa. E la libertà di scoprire con leggerezza i nostri mondi interiori e le infinite forme d’amore di cui siamo capaci.

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