Ricevere il più ambito premio di bellezza e successivamente cadere nel vortice delle contestazioni, un vero e proprio body shaming, per non essere espressione della femminilità delle donne, sembra quasi una beffa, una contraddizione difficile da comprendere, ma che apre, tuttavia, ad una riflessione interessante sul senso della femminilità ai giorni nostri.

La protagonista è una ragazza di nome Éve Gilles, vent’anni, eletta Miss Francia 2024 lo scorso dicembre, ma giudicata inadeguata a rappresentare le donne perché non abbastanza femminile per il taglio corto dei capelli, il corpo troppo magro e

“l’assenza di forme”,

come emergerebbe dalle motivazioni della contestazione successiva al riconoscimento. In effetti Éve Gilles è una bellissima studentessa universitaria di matematica e statistica, porta i capelli corti ed è filiforme come lo sono la maggior parte delle concorrenti di questo contestato, ma anche ambìto, concorso di bellezza femminile che si svolge in quasi tutti i Paesi del mondo. 

Il caso di Éve, il dibattito, la rappresentazione della donna

Il caso di Éve Gilles in verità porta con sé aspetti controversi che animano tra i più accesi dibattiti aperti negli ultimi tempi e che riguardano, solo per tracciarne alcuni, la rappresentazione della donna nella società, il concetto stesso di femminilità e l’attualità di conservare definizioni capaci di identificare il genere femminile. 

Una prima riflessione che la vicenda suscita è se sia ancora attuale un concorso in cui il corpo delle donne viene mostrato come si fa con le automobili messe a lucido nelle belle fiere che si svolgono in tutto il mondo o se, invece, i tempi moderni richiedano a chi ha più senno, una revisione di vecchie abitudini specchio di una cultura desueta e in parte superata, ma che, soprattutto si sta cercando di trasformare con tanta resistenza. Il modo attraverso il quale giovani figure in costume sfilano su quella passerella e l’emozione di trovarsi sotto i riflettori strizzano l’occhio al desiderio che ogni ragazza, ma vale anche per i ragazzi, coltiva di poter entrare nell’olimpo delle celebrità, di avere successo e di conseguenza di guadagnare, magari faticando poco, un mare di soldi.

Educare alla bellezza, lotta al body shaming

I sogni sono sempre belli e vanno coltivati. Con questo non si vuole affatto svalutare l’importanza della bellezza alla quale ciascuno di noi dovrebbe tendere, ma proprio in funzione della sua importanza, a maggior ragione per chi vive in un Paese come il nostro, un bene prezioso da valorizzare, ma anche da educare.

Educare alla bellezza potrebbe portare con sé un modo di pensarla come fattore composito di cui l’esteriorità è solo una parte, certo importante, ma non isolata dal resto. Ciò che non vorremmo accedesse è portare questa riflessione dentro la diatriba sterile e sciocca di essere pro o contro il Concorso di Miss Italia, ma fare quell’auspicato passo in avanti che una dialettica proficua richiederebbe in ogni confronto di idee.  

Éve Gilles non è così femminile da meritare la conferma di Miss Francia e, al contempo beffa nella beffa, bersaglio di naviganti del web che si sono scagliati violentemente contro di lei con insulti e frasi denigratorie perché, a loro avviso, la Reginetta della Francia doveva essere impersonata da una ragazza dai capelli lunghi e fluenti con un corpo più femminile. Da oggetto di ammirazione ad oggetto di denigrazione il passo è breve se non si esce da questa logica pe cui il corpo delle donne si umanizza e de-oggettivizza per diventare un soggetto pieno di diritti che sfugge alla classificazione e alla equiparazione di un bene.

Il corpo ha la sua corporeità come lo hanno le cose, ma a differenza di queste è un elemento costitutivo dell’essere umano incapace di venire assimilato a queste e trattato alla stessa stregua. Accanto a questa tematica che costituisce la matrice di comportamenti disfunzionali nel sistema comportamentale che caratterizza la nostra società, emerge l’aggressività cui si è sottoposti in maniera trasversale attraverso l’uso dei social per imporre in modo imperativo e non dialogico la propria opinione che diventa imperante grazie allo strumento utilizzato.

Anche qui, come per le suggestioni offerte sul concorso, non è lo strumento, ossia il web, da demonizzare, ma l’uso che di esso si fa laddove non vi sia una appropriata educazione sugli effetti reali che il virtuale determina nella vita privata e pubblica di una persona. È opportuno tracciare un confine tra il lecito e l’illecito dei comportamenti, ma anche delle parole e della necessità di imparare a convivere con le diversità che arricchiscono una comunità di qualunque tipo essa sia. Diversità che possono essere non solo di evidenze visibili, ma anche di opinioni che portano necessariamente all’ascolto e al rispetto di chi è diverso da ciò che noi conserviamo come stereotipo, o delle nostre personali opinioni che hanno la stessa dignità di quelle degli altri.

Per approfondire l’argomento consiglio il libro Voglio una vita a forma di me, di Julie Murphy (Mondadori, 2016, pp. 346, ebook euro 8,99) da cui è stato tratto l’omonimo film del 2018 diretto da Anne Fletcher.

Willowdean Dickson ha qualche chilo di troppo, un soprannome imbarazzante come polpetta e soprattutto, si piace proprio così com’è. Anche se sua madre è presidentessa di un concorso di bellezza, anche se la sua migliore amica è bionda e magra come una star, anche se nelle pubblicità le ragazze grasse sono sempre infelici oppure buffe pacioccone… Willowdean è dotata di autoironia e si è sempre sentita bene nella sua comoda, morbida pelle.


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