Recentemente ho visto Exodus, un film del 1960 sulla storia della nascita dello stato di Israele. L’ho visto perchè volevo saperne di più di questa storia complessa.

Poi ho pensato:

“Certo, è pur sempre un film americano, è di parte, per di più sono altri momenti storici, sia il tempo della storia (l’epoca in cui è ambientato, 1948) che quello della narrazione (epoca in cui è stato fatto il film, 1960), insomma ho sbagliato tutto, per saperne di più potevo vedermi un documentario. Ma tanto tutto è di parte, a chi ti affidi ti affidi sbaglierai no? e comunque non potrai sapere e accogliere le idee di tutti, proprio per questo ho deciso di appellarmi almeno ad un film che ha vinto l’Oscar e pensare solo: “come sarebbe vederlo oggi?” e l’ho visto, da millennial ingnorante poco abituata ai film lenti.

Che senso hanno le ultime parole di un meraviglioso Paul Newman da giovane che aveva fatto salpare da Cipro una nave verso la Palestina, con 600 profughi ebrei reduci dall’Olocausto pieno di madri in sciopero della fame disposte a far morire i figli ?

Eppure quelle parole di speranza, dopo altri sessant’anni, rimangono ancora le ultime parole di un funerale:

«Che l’arabo e l’ebreo condivideranno in pace e in vita quella terra che hanno sempre condiviso nella morte»,

sotterrate con i corpi in un mucchio di terra.

E pensare che anche gli accordi della loro terra rimangono solo in quella miglior colonna sonora.

Qual è la soluzione per risolvere la guerra israelo-palestinese oggi?

Non sono una politica, ma mi faccio trasportare dall’immaginario. Come immaginare corridoi umanitari in una lunga strada costeggiata da Colonne di nuvola, batuffoli di aria condensata, bambini che si preparano ad una pioggia di missili?

Preciso che Colonna di nuvola è’ il nome vero di un’operazione militare di Israele contro Hamas risalente al 2012, una delle tante che sta vaporizzando uno Stato, sempre più Gazoso, rarefatto.

Ma si può chiamare così un’operazione militare? Immaginatevi la Colonna di nuvola, un po’ come la Storia della Colonna infame dei Promessi Sposi, forse come appendice nel prossimo libro di testo; non pensereste ad un episodio epico in cui gli dei: Dio, Yahaweh, Allah, sopra lo stesso cielo, prendono le parti degli eroi vigorosi (e maschi) di cui regolano ire funeste e amori terreni complici, ma non riescono a unire in amore e pace arabi ed ebrei? Qual è la consegna? Cerchiare le figure retoriche e lasciare le domande alle autorità.

La differenza tra mito e fiaba la lasciamo all’ora di antologia, ma procediamo anche noi per metafore, l’immaginazione si è dissolta con il movimento di una bacchetta che ha sfumato imponenti Colonne di nuvola, in una cascata di macerie rumorosa.

E mille altre ce n’è di operazioni che si nascondono nella fascinazione retorica: spade di ferro: una pioggia di fuoco, non è una guerra? È una piaga divina o un duello cavalleresco d’amor scortese, quello che muoveva la passione di Cristo e le altre due culture monoteiste concentrate in una terra, in un campo di battaglia di una guerra santa un ossimoro in atto, che non puó avvicinare le persone. Lo zio di Ari (interpretato da Paul Newman) e membro dell’irgun (gruppo paramilitare sionista), nel film diceva a suo nipote, il quale era più moderato e speranzoso di una convivenza pacifica tra arabi ed ebrei, che nessun popolo è nato senza violenza, in effetti…

Poi l’attuale guerra ha fatto piú morti dalla nakba, la catastrofe l’esodo forzato dei palestinesi nel 1948 quando venne fondato lo stato di Israele.

Ora, cosa immaginare per le Pasque quando la Pesach ebraica ad aprile ricorderà l’esodo del popolo ebraico (e forse anche quello di Paul Newman) e i cristiani la resurrezione di Cristo il 31 marzo, esattamente un giorno dopo il Land Day dei palestinesi (30 marzo) che dopo gli scontri del ’76 commemorano la resistenza contro l’espropriazione delle loro terre da parte del governo israeliano?

Le feste, il Natale, tradizioni che spesso dividono anziché unire

Le feste dovrebbero essere un modo per festeggiare e invece c’è sempre la paura di brutte sorprese. Già a Natale era stato triste; il presepe con i pastori napoletani attaccati alla presa mentre altre persone sono in rianimazione. Mentre Gerusalemme è lontana, ancora sotto assedio, i Re Magi sono all’inizio della mensola. Ogni giorno di dicembre un componente della famiglia li aveva spostati avanti mentre la maionese impazziva e la farina cadeva sotto il cielo stellato all’altezza dei classici russi della libreria, grandi teste pensanti e scomodate di un altro popolo sotto la neve, in una guerra che ha ancora meno senso di questa.

La nascita di uno sconosciuto unisce da millenni famiglie e ancora prima popoli e continuerà a farlo, è pazzesco, a costo di dividere altri popoli. Eppure questi parenti stracolmi di un portato culturale millenario e una portata di antipasti continuano a non conoscere bene di chi si sta parlando (Gesù) e con chi sta parlando (forse un nipote di secondo grado), ma grazie a Dio il più vicino genealogico si conferma con il segnaposto a tavola, anche quest’anno.

Sopravviviamo nelle nostre bolle di spumanti agli auguri di futuri. Il pericolo di parlare di religione o di schieramenti, ora, è uno strano virus morale. E’ come quando durante il Covid avevi bisogno di tossire, ma ti trattenevi a costo di stare male, per non essere guardato male, additato come colpevole. Ma in guerra non c’è ne è nessuna di morale, come puoi mettere voce in questo capitolo tu da fuori? Al massimo puoi mettere un’orecchietta nel libro su cui ti informi. Ognuno ha i suoi batteri, non può digerire tutto a meno che tutti sputino nei piatti in cui mangiano gli altri e gli stomaci del mondo intero si abituino a metabolizzare pietànze.

I parenti non si sentono, si conoscono poco e si parlano sopra, in fondo, l’unico tema che unisce è il manicaretto cucinato dalla nonna, ci si riempie la bocca di parole sdolcinate e dolciumi, perchè lei vive per questo momento. Il cibo è sempre stato il principale mezzo italiano per manifestare un amore disfunzionale perchè non sa farlo esprimendo emozioni in maniera diretta, allora una ragazza anoressica del centro va a vomitare dopo i pasti, ma quando lo fa penserà mai di sfregiare chi non ce li ha per sopravvivere nel suo paese ? Non giudico i disturbi alimentari, sono la prima che ha le fisime, ma siamo figli/e del nostro contesto ognuno con le proprie malattie.

Tensione e frustrazione sono il pane quotidiano degli abitanti di Gaza

dice Wired, una testata giornalistica forte che non gli ha fatto perdere i sensi (della realtà); come gli viene in mente di usare la metafora del pane in una tragedia di carestia? Ha perso la testa quando ormai hanno finito le scorte di dolore, i corpi che non sentono piú nulla.

Si misura la morbidezza nella mollica di pane, come una ricetta riuscita: come l’hai fatta? Dopo tutte le fasi di preparazione, la parte più importante: con amore, un ingrediente che ha lo stesso peso dell’aglio a cui bisogna togliere l’anima, quel germetto verdognolo dentro, ecco perchè ha meno sapore, per non impuzzolentire gli aliti, che poi nessuno si bacia più.

Si cantano insieme gli auguri ad un festeggiato che ti accorgi di non aver mai conosciuto; tu scendi dalle stelle, mentre pensi agli altri bimbi uccisi che ci salgono, dalla terra da cui proviene il protagonista della canzone che stai cantando, che è anche la loro, ma non ci unisce, e le parole escono strozzate da una lingua di terra che non ha voce: la Palestina.

Non era venuto per giudicare il mondo, ma per salvarlo, e dove ascendevano sia Cristo che  Maometto, come due conoscenti timidi e muti nello stesso ascensore, vengono trasportati negli alti e bassi piani dei conflitti di guerra. Famiglie cattoliche, rimanete sedute, non è finita la cena.

Una stella cadente comandata da un generale; quella scia non è la sua cometa, non è guida, è Giuda, si è invertito di una lettera, una comunicazione tradita, il fuoco artificiale della follia di molti: è un razzo fluoriescente, diventata una miccia dell’offensiva.

Si stanno vaporizzando in parole di aria fritta, perchè sono attenti alla linea di Jet privati che spostano accordi e viaggiano tra colonne di nuvole di operazioni infami, altissime, che si ergono fin sopra l’Olimpo dove ci sono gli dei di Gerusalemme, in pace, in zona internazionale: qualcuno ha news?

Nessuno risponde, mangia, con la testa bassa, sotto le campagne aride, militari, dove si distende il velo pietoso del verde di una bandiera di terroristi che copre altri palestinesi civili. Su una fetta di terra brulla, con i frutti ammaccati degli arabi sradicati dei loro vecchi alberi, una striscia che compariamo alla grandezza di Prato, un comune toscano molto rigoglioso e sopratutto con la piú grande comunità di cinesi.

Cosa parliamo di atti disumani se è tutto cosí umano?

Se è cosí umana la necessità deplorevole di distinguere gli stessi umani, tra ostaggi civili e i cosiddetti soggetti umanitari da salvare prima, perché sono volontari in prima linea che sono lí accidentalmente nel momento sbagliato. Se è così umano fare la guerra, evidentemente.

Compatti e compressi in silenzio, numeri depressi, senza piú fiato di un alfabeto lungo quanto la striscia di Gaza, sempre più striscia di Garza, perché avvolta in bande di garze di arti feriti, altri feriti, mamme mummie, cadaveri veri in una notte di Halloween da paura, tutta reale, in cui una creatura soprannaturale è meno spaventosa di un israeliano in borghese o un palestinese che non puó esserlo perché non ha più nulla, neanche una terra su cui camminare, non sono travestiti, poveri, in borghese, Come ti vesti tu? Oddio, non lo so sono disperata non ho nulla.

E poi c’è una foto che testimonia l’orrore ma potrebbe essere fatta da un’intelligenza artificiale che ti aggira i sentimenti e ti strattona tra due parti, per proteggere chi è stato piú colpito, chi ha sofferto di piú. I negativi delle foto vere rimangono appesi al cappio di in una camera oscura dove non si svilupperanno mai. Non crediamo piú a nulla, e cosí abbiamo perso la fede, con un algoritmo ingannatore che ci renderà sempre piú negazionisti, distanti dalla realtà, impassibili alle guerre. Ci auto convinceremo che per noi è una messa in scena, perchè possiamo solo credere a quelle foto, a quei video, ma sono fake. Da quando gira la foto di Trump arrestato con il completo arancione che, tra l’altro, fa ridere, abbiamo iniziato a fingere a noi stessi, non sapremo che provare e ci proteggeremo cosí.

Ritorneremo a tentennare nel buio di un lungo corridoio umanitario che ha dei confini precisi, le linee bianche, una strada, un tunnel buio, senza luce ed elettricità, tutto dritto.

La gente si muove per andare a trovare un posto dove fare i propri bisogni, in pace, ma provvisoriamente.

Pretendere di fare i propri bisogni in pace, è una cosa così naturale, eppure così difficile per quelle persone che non trovano uno spazio di terra. Più avanti c’è un posto di blocco, un blocco mentale che diventa una costipazione fisica, un filo spinato, una linea verde, un mare morto e un mare di morti che ti porta in Cisgiordania, vicino a dove, prima che Cristo fosse Resort, si era recato a Nablus, al pozzo di Sicar e assetato aveva chiesto dell’acqua ad una donna samaritana, straniera, stupita del coraggio con cui un giudeo gli chiese da bere (c’è anche una canzone di Adriano Celentano che si intitola Il forestiero).

Un bisogno di tutti, bere acquaviva ed essere lasciati in pace.

Chissà se vogliono stare anche in privacy, le persone private della loro dignità. La foto di una madre disperata con un figlio insanguinato in una coperta bianca che lo avvolge come uno spiedino.

Nella notte in cui era scattata l’ora solare (tra il 28 e il 29 ottobre 2023) la piú buia della Storia, dicono più di 1,4 milioni di sfollati. Quante storie buie ci sono e ci saranno, che non sono mai l’ultima di una buonanotte per dei bambini che vogliono sognare, in pace, e un bambino che probabilmente sogna l’inferno perché nella sua vita non ha mai visto un quadrato di cielo, sotto i fili elettrici di un campo profughi sotto attacco.

Si dà al corridoio umanitario la responsabilità di trovargli la strada non per un bagno di sangue, in fondo a destra di un governo che non alza le mani, tanto ha l’acqua per lavarsele.

“In fondo, giú in fondo al corridoio umanitario c’è il bagno, ti ho detto, c’è un asciugamano pulito appeso col mio nome di battesimo, un regalo del battesimo, a cui tengo, me lo porto dalla nascita, ora è sporco di sangue, di mestruo, scusa, è la mia battaglia umanitaria.”

Il corridoio è la colonna vertebrale di ogni casa.

Un corridoio umanitario quanto mi fa pensare, non riesco a immaginarmelo. Quanto è lungo? Quanto si cammina? Dove arriva?

Papa Francesco dice che guerra chiama guerra, non Dio.

Suona un campanello, al citofono non un nome, a fiducia apriamo una porta, è quella del Signore, è il vicino:

“Vieni entra pure, che ti offro? Un bicchiere d’acqua, un ostia sconsacrata? Le compro perchè mi piace il sapore, che devo fare”.

“Aspetta, ci siamo fidati, non so se ci credo al mio vicino, non abbiamo chiesto quanto è vicino il nostro vicino. A quanti metri si stabilisce il raggio di vicinanza di un vicino?”

Mi ricorda i tempi dei perimetri in quarantena, gli isolati di distanza e noi isolati a distanza.

L’importante è la permanenza, sappiamo che è solo di passaggio, come il migrante economico, perchè il corridoio umanitario prosegue, c’è sempre un posto migliore, e non è la Terra Santa, dove sarei tanto voluta andare in viaggio.

Vi porgo le mie petizioni, le mie firme, posso tentare di seguirvi da lontano dietro lo striscione con le mie chiacchiere private su come è andata la giornata di lavoro dopo che ho rincorso il tram per arrivare al corteo, affannata. I fumogeni da stadio hanno un odore insopportabile e tutti si tappano il naso; c’è bassa soglia di sopportazione, il giorno prima c’è stato un goal sbagliato, abbiamo urlato confusi tra le tifoserie di arabi-israeliani, un derby dove non si capisce chi giochi in casa, alcuni ce l’hanno altri no.

Io è la prima volta che per la fretta mi dimentico le chiavi di casa.

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