Se è vero, come diceva Calvino, che un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire, io credo che Il colibrì possa essere un classico, perché qualunque età voi abbiate e in qualsiasi fase della vostra vita vi troviate, Il colibrì saprà raccontarvi un pezzo della vostra storia, ogni volta diverso.
Nel romanzo che gli è valso il secondo Premio Strega della sua vita, Sandro Veronesi ha raccontato l’esistenza di un uomo che può diventare orfano di ogni cosa, e restare saldo, trovando ciò di cui cibarsi anche a stomaco chiuso.
Chi perde un genitore è orfano, chi perde un coniuge è vedovo, chi perde un figlio in italiano non trova una parola sola, anche se altre lingue lo fanno. In lingua ebraica, ci racconta Veronesi, si usa shakul e in arabo thaakil per esempio; il greco moderno usa charokammenos, bruciato dalla morte, che in teoria è riferito a chiunque subisca un lutto, ma si usa in effetti solo per indicare un genitore che perde un figlio.
Ci piace pensare che, siccome la lingua è una costruzione sociale e culturale, se la nostra lingua non trova una parola per indicare questa condizione è perché probabilmente la società e la cultura in cui essa è parlata rifiutano la possibilità che si possa continuare ad esistere senza i propri figli. La perdita di un figlio è muta nella nostra lingua, e per quanto questa mancanza provi a scacciare scaramanticamente questa possibilità dal mondo, la realtà che si manifesta costringe comunque la lingue a trovare, anche lì dove non sia in grado di restituire una risposta, almeno un giro di parole.
Non c’è nemmeno un termine per definire chi rimane senza una sorella o senza un fratello: non è una condizione né socialmente accettabile, né è ritenuta innaturale, accade e basta, è solo inevitabile.
Se non fosse anche solo per una questione di numeri e anzianità, quando un bambino viene al mondo nessuno pensa che il padre che lo tiene in braccio gli sopravviverà. Ma tra fratelli non è così, tra fratelli nessuno pensa mai che il più vecchio se ne andrà prima o che sia innaturale il suo andarsene dopo. Il fatto che la lingua italiana non abbia una parola per indicare la perdita di una sorella ci dice qualcosa o ci dice qualcosa solo sulla pigrizia della lingua, sul suo fare economia, come si dice? Anche qui la lingua tace, ma la realtà procede come un torrente tra sassi che solo apparentemente ne ostacolano il percorso. Sandro Veronesi fa una cosa rara, perché se è vero che non trova una parola per definire questa perdita, riesce a trovare le parole per rappresentarla, perché chi perde un fratello o una sorella perde una parte di sé e una parte dei propri genitori.
La letteratura ci racconta dolori che la lingua nega o esorcizza, la realtà ce li sbatte in faccia e la letteratura li raccoglie. Ne Il colibrì trovano narrazione, e con essa dignità, tutte le perdite.
Sandro Veronesi ha scritto la biografia di un uomo attraverso le sue perdite e la sua sopravvivenza, e la sopravvivenza di quelli accanto a lui. Ė un romanzo sui rapporti umani, quelli di sangue e quelli che si creano per volontà di qualcuno, e su come si sopravvive, o meglio, si può provare a sopravvivere. Sandro Veronesi ci dice… no, mi dice che il tempo lo posso toccare solo toccando con mano le relazioni, perché non c’è passato senza relazioni passate: il tempo è fluido e le assenze, le perdite, le presenze, le nuove conoscenze sono le uniche cose che scandiscono il tempo, anche quelle a cui non sappiamo dare nomi.
Il colibrì di Sandro Veronesi, premio Strega 2020, è edito da La nave di Teseo