Il colibrì di Francesca Archibugi: un film doloroso e vero
'Il colibrì' è un dramma senza fine, quasi persecutorio per lo spettatore, ma proprio per questo di facile empatia. E ci riguarda tutti.
'Il colibrì' è un dramma senza fine, quasi persecutorio per lo spettatore, ma proprio per questo di facile empatia. E ci riguarda tutti.
Il 14 ottobre scorso è uscito al cinema in Italia Il colibrì, per la regia di una delle artiste più toccanti del nostro Paese, Francesca Archibugi, che firma anche la sceneggiatura insieme a veri mostri sacri: Sandro Veronesi, Laura Paolucci, Francesco Piccolo. Protagonista è Pierfrancesco Favino, affiancato da Kasia Smutniak, Nanni Moretti e Laura Morante, tutti bravissimi e bravissime.
Centoventisei minuti di emozione distillata, quasi la gamma completa di quanto siamo capaci come esseri umani. Il film deriva da un romanzo, a firma Sandro Veronesi, best seller del 2019 e Premio Strega 2020 di cui ha parlato qui su Rewriters la nostra blogger Laura Caccavale.
Il film racconta la vita di Marco Carrera, uomo ferito, dopo essere stato un bambino ferito: una sorella suicida, due genitori ingombranti e litigiosi, un fratello traditore, una ragazza, poi donna, amata per tutta la vita, tanto da minare e poi distruggere un matrimonio e la famiglia che ne è derivata. Marco sbatte forsennatamente le ali per rimanere fermo allo stesso posto, proprio come fa il colibrì, suo soprannome fin da bambino, nome omen.
Un uomo buono, naturalmente votato a non fare del male ad anima viva, e per questo involontariamente passivo (e forse quindi colpevole?), anche se onnipresente e definitivo in ogni relazione che lo riguardi: amico, fratello, figlio, padre, amante.
Il sapore è simile a quello di tanti testimoni silenziosi della propria vita, come Giorgio de Il giardino dei Finzi Contini o Marcello de Il conformista, e come quei romanzi anche cuore di un ambiente radical e chic, profondamente borghese, intriso di ipocrisia e finzione. Un’esistenza in cui l’importante è che tutto torni, preferendo le occasioni mancate al senso di compiutezza e autenticità.
Forse anche sceneggiatura e regia sanno di borghesia, ma proprio per questo tutto tende alla perfezione narrativa. Le interpretazioni sono a volte un poco teatrali, per non dire caricaturali, ma la storia c’è, i talenti esondano, e tutti noi sappiamo, ahimè, che cosa siano i dolori messi in scena perchè rappresentano l’imperfezione, la fragilità, la salita della vita con cui tutti siamo faticosamente alle prese.
E se il diaframma classista forse allontana, la credibilità dei personaggi recupera e ripara, lasciando intatto il ritmo nel suo procedere. Un dramma senza fine, quasi persecutorio per lo spettatore, ma per questo di facile empatia. Ad esempio, chi non impazzisce all’idea di perdere un figlio giovane? E Marco Carrera, immobile lungo tutte le tragedie indicibili della sua vita, è anche questo, oltre che orfano e – in parte – vedovo: shakul. Parola ebraica intraducibile che si attribuisce a chi perde un figlio (ma nemmeno gli ebrei hanno un termine per definire chi perde una sorella).
Il film si può noleggiare su Prime Video, ma lo sconsigliamo a chi cerca svago, leggerezza e divertissement.