Un tavolo, una sedia, una finestra. S’apre su questo spazio la favola nera di Ágota Kristóf dal titolo La chiave dell’ascensore.
Una donna senza nome racconta la storia di una castellana confinata su un’alta rocca in attesa del suo principe, e intanto si guarda attorno. Anche lei è sola a casa, e anche lei è in attesa, non di un principe, beninteso del marito.
Quel poveruomo esce presto al mattino per lavorare, mentre lei resta in casa ben protetta. “Ma che cosa meravigliosa è l’attesa quando si è sicuri”. Nessuno d’altronde può arrivare lassù. L’unico modo per arrivarci è l’ascensore, e nessuno ha la chiave dell’ascensore. Non ce l’ha nemmeno lei, la chiave. È a quel punto che la storia si rivela per quello che è: il racconto drammatico e crudele di una donna tenuta sotto sequestro dal proprio compagno.
Durante la quarantena che abbiamo vissuto, ho pensato spesso a quella storia.
In un tempo in cui la casa ha funzionato come gravità sui frutti maturi, e ci siamo sentiti tutti più ammaccati, rammolliti, costretti a modellarci su questi nuovi spazi, sui silenzi, su un tempo smidollato che faticava a stare in piedi, mi è venuta in mente lei: la donna senza nome uscita dalla penna di Kristóf.
Non ci sono premesse condivise su cosa significhi abitare questo tempo di isolamento. Ci è stato chiesto di rimanere a casa – doveroso, necessario – e allora abbiamo provato a fare i conti con la nostra irrequietezza, non sapevamo come fermarci ed eravamo disorientati, assecondando le forze che ci spingevano in direzioni opposte e facendoci prendere ora dall’affanno ora dalla nostalgia.
Desiderare di sfuggire alla solitudine è una debolezza, scriveva Simone Weil, e noi lo abbiamo appreso poco a poco, nella rinarrazione del quotidiano, nella ridefinizione dei confini, nel tentativo goffo di ritrovare noi stessi in come eravamo e in come saremmo se avessimo tempo a disposizione per dedicarci alle cose che amiamo.
Ma c’è un’altra solitudine che non dà spazio ai viaggi interiori. Poco lontano da noi ci sono stanze – e tavoli, sedie, finestre – e altre donne senza nome che attendono dietro una porta e sperano in una chiave. Ci sono case dove i nostri slanci creativi servono a poco, dove ogni cosa si dissolve e niente può salvarsi. Dove non c’è coraggio, virtù o grandezza che tenga.
In queste case la paura si è moltiplicata: c’è stata e c’è quella del contagio, certo, ma soprattutto quella di non farcela a resistere al controllo ossessivo, agli eccessi di confidenza che sono prove di addomesticamento, alla messa a morte di ogni entusiasmo, energia, vitalità. A ogni richiesta d’aiuto silenziata.
L’allarme è stato lanciato da più parti e i centri antiviolenza italiani hanno diffuso appelli per tutti coloro – donne, uomini, minori – che nelle mura di casa non si sentono al sicuro. Il numero gratuito da chiamare in caso di bisogno è il 1522, la help line per violenza e stalking. Altri numeri utili sono i Carabinieri (112) e la Polizia (113). Resta poi attivo 24 ore su 24, il Telefono Rosa (06/37518261/ 62/ 82).
È un tempo che chiede collaborazione. E che chiede – ora più di prima – di farci carico delle storie altrui. Di metterci in ascolto, in collegamento, di attivare processi di emersione (della verità, dei bisogni), di ricomporre in forma nuova le nostre relazioni e i nostri legami in modo che l’isolamento resti fisico e mai relazionale.
Carichiamo il nostro spazio di forme di esistenza e di presenza liquide, che sappiano scivolare sotto le porte, insinuarsi tra tavoli, sedie, finestre, e offrire vie di fuga a chi ha poche opportunità di evasione. Diveniamo, in questo tempo disarticolato, non isole, ma non-luoghi attraversabili: ponti, varchi, soglie di accesso a spazi di libertà in cui a nessuno sarà mai negata una chiave.