Un bagliore (Ed. La Nave di Teseo, 2024 – 13 euro) di Jon Fosse, premio Nobel per la Letteratura 2023, è un libro piccolo, compatto, ma che spalanca voragini. Settantaquattro pagine appena, che si leggono tutto d’un fiato, in un unico pomeriggio, come in un lungo piano sequenza interiore. È un libro da leggere ad alta voce. Per sé, ma ancora meglio davanti ad altri, insieme ad altri, condividendo il ritmo e le pause, la voce e il respiro. Perché Un bagliore è scrittura musicale, quasi liturgica.

Un bagliore#1 di Barbara Lalle (2024)

Un uomo solo, un bosco, la fine: Jon Fosse torna a parlare col silenzio

La trama è semplice e archetipica, quasi dantesca: un uomo si perde. Si perde fisicamente, con la macchina, poi nei boschi, nella neve, nel freddo. Ma è già perso da prima — dentro. Quella che leggiamo è la cronaca del suo smarrimento, ma anche della sua resa. Una resa lucida, dolorosa e paradossalmente leggera. Una selva oscura e glaciale. La retta via — e la macchina — smarrita.

Fosse ci accompagna dentro il pensiero di quest’uomo, nei suoi gesti, nelle sue ripetizioni, nei suoi intercalari ossessivi, teneri, tragici e quasi comici. C’è qualcosa di ipnotico nel modo in cui si racconta il nulla: il nulla dell’orientamento, della speranza, della sopravvivenza. Ma anche il nulla fertile e fluttuante della mente che si stacca dal corpo.

Rimango dove sono e ascolto il silenzio.

Ed è come se il silenzio mi stesse parlando.

(Jon Fosse dal libro Un bagliore)

Il linguaggio ha la semplicità complessa di una cantilena. Le ripetizioni non sono vezzi, ma passi. Il discorso diretto è un flusso interiore rivolto a se stessi, o forse a Dio, o forse al lettore, o forse a nessuno. Sarebbe perfetto come monologo teatrale.

Me lo immagino in bocca a Claudio Morici, con quel suo tono colloquiale, ironico, quasi dimesso che si sposa benissimo con le ripetizioni e le fluttuazioni del testo, diretto alla regia da Daria Deflorian. O Ascanio Celestini in una soluzione “solista”, dove scrittura e voce coincidono perché ha il talento per far scivolare l’uditorio in un flusso di coscienza che sembra semplice e invece è stratificato.

Ci vedrei bene Un bagliore in stile Laika, tra parole, buio e neve. Uno di quei racconti che si ascoltano in silenzio, col fiato un po’ trattenuto e un piede già fuori da questo mondo. Oppure scommetterei su una donna in scena, anche se il testo parla di un uomo: Silvia Calderoni, diretta da Motusus, in una versione visionaria, bradicale, queer, che porterebbe Un bagliore dentro un altro spazio: il corpo come luogo del gelo e del linguaggio.

Un bagliore#2 di Barbara Lalle (2024)

Personaggi, presenze immaginari, visioni, ricordi

Ma a parte questa mia digressione (è che mi è così piaciuto questo libro che ho sia voluto imaginare una trasposizione teatrale sia relizzare tre opere digitali che vedete a corredare l’articolo!), nel testo di Jon Fosse, non ci sono altri personaggi, ma ce ne sono molti. Sono presenze immaginarie, visioni, ricordi, o forse deliri. Voci che si affacciano nel momento più estremo e più vulnerabile, come accade spesso nei racconti di premorte. E non è un caso che Jon Fosse, da bambino, abbia vissuto proprio un’esperienza di quel tipo. C’è in tutto il libro una spiritualità opaca, misteriosa, una luce che viene dal buio, o dal gelo. Un bagliore, appunto.

Si sente che Fosse è scandinavo. Questa scrittura viene da un luogo freddo, bianco, dilatato. Come un pezzo dei Sigur Rós. Neve, silenzio, fiato che si condensa.

E poi c’è quella verità che non serve spiegare, ma che affiora in silenzio: quando ce la vediamo brutta, pensiamo sempre ai nostri genitori.

Consigliato a chi è in viaggio – in macchina, nei boschi, o dentro di sé. A chi ha voglia di perdersi, per vedersi da fuori..

Un bagliore#3 di Barbara Lalle (2024)
Condividi: