Un giorno in chat Eugenia Romanelli mi ha scritto che è dal dolore che nasce la forza e che è dall’essere pavidi che si trova il coraggio: mi ha ricordato di Eros, che nasce da Penia, la dea della mancanza.

Nel suo ultimo romanzo, Mia, edito da Castelvecchi, Romanelli racconta di Mia, di Valentine e Anna, di Luisa e Xavier.

Le vite degli adulti di questo romanzo sono come quelle rocce sedimentarie che abbiamo visto da bambini sulle pagine dei sussidiari e che conservano al loro interno fossili antichissimi, inseparabili eppure distinguibili. I dolori di Valentine e Anna, quelli di Luisa e Xavier, i ricordi di infanzie dolorose, mancanze incolmabili e lutti nascosti rimangono come resti un tempo viventi incastonati nella roccia. Il senso di colpa, il desiderio negato di genitorialità, la paura di non essere amati, i ricordi violenti, l’assenza di un padre e il silenzio di una madre tacciono con difficoltà e raramente si acquietano per sempre, anzi pulsano e non se ne vanno. 

Cambiano forma e a volte diventano forza e coraggio. 

Romanelli disegna dei personaggi difficili. Quando pensi di poterti identificare in Luisa o in Valentine, quando senti di condividere con loro un male o un sentimento, arriva qualcosa a scuotere la dolce e facile immedesimazione in cui cadiamo: un loro pensiero ci fa prendere le distanze, una loro scelta quasi ci fa imbarazzare di aver empatizzato con loro. Sono personaggi difficili perché portano con sé il peso delle loro esistenze, dei loro cari, dei desideri che hanno messo a tacere per poter sopravvivere, e Romanelli, in meno di trecento pagine, ci dà l’impressione di poter restituire tutto questo peso. E, per qualche ora, di farlo portare anche a noi. 

Nel romanzo tutto è continuamente rimandato al passato dei personaggi: l’autrice ci racconta i primi incontri, l’instaurarsi delle relazioni, le rinunce e i momenti felici trascorsi, e ci mostra quegli adulti continuamente distratti, impegnati a sbrogliare senza sosta qualcosa che c’è stato prima.

L’unica a tradirsi apertamente, incapace di nascondersi, è Mia: ha quattro anni, una storia passata che sta in una mano e per questo la sua parola è sempre vera e il suo balbettare è il più sincero parlare del romanzo. Mia è fiduciosa perché non conosce delusione, è ingenua perché non conosce diffidenza e mostra le sue piccole fragilità con le sue lacrime, col suo facile arrendersi al sonno e anche con il suo dire incerto.

In una trama da giallo fatta di ambiguità, la suspense dell’intreccio si scontra con i dialoghi quotidiani e le conversazioni familiari, mentre le lettere disperate e le ossessioni cozzano con i sorrisi di Mia e l’amore delle sue mamme.

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