Anche quest’anno si avvicina il tempo delle Prime Comunioni. Si avvicina anche per quei bambini che in chiesa ci vanno solo in gita. Si avvicina anche per quei bambini che hanno i padri che smadonnano contro Ibrahimovic e le madri che cercano di lenire dal vicino di casa, il dolore ancestrale di aver sposato uno che segue il calcio con un trasporto affettivo mai avuto nel matrimonio. Anche per i bimbi che un giorno vorranno professare un’altra religione, a maggio arriva il tempo della Prima Comunione.

Più che un tempo, un giorno. Un giorno in cui, per la prima volta, i piccoli verranno ricoperti di beni di lusso e ne saranno finalmente consapevoli, a differenza di quanto accaduto al battesimo che li ha presi inermi e alla sprovvista, imbottiti di catenine e braccialetti in oro massiccio che neanche Ice Cube.

Il giorno della Prima Comunione è dunque, principalmente per questo motivo, un giorno a cui pochi bambini riescono a rinunciare perché, pur non riconoscendo ancora il valore dell’oro e manco quello di Dio, sperano comunque che qualche parente giovane si spinga oltre e regali loro tecnologie della madonna e comunque il valore dell’oro, alla fine lo percepiscono dall’apprensione con cui i parenti lo maneggiano e ne parlano, a differenza di quello di Dio.

Gli effetti del catechismo

La prima comunione è un evento democratico, di massa ma con un suo obiettivo preciso: l’iniziazione all’opulenza. Per accedervi bisogna aver subito due anni di catechismo. Il catechismo potrebbe essere una bella occasione per anticipare un messaggio fondamentale e di grande educazione e cioè che la spiritualità potrà preservare dalle depressioni cosmiche che si subiranno da adulti; purtroppo, invece è spesso portato avanti da persone che dovrebbero esser messe dentro ai vasi, a concimar le piante poiché solo in quel modo potrebbero portare frutto.
Il catechismo ai danni dei bambini è qualcosa di viscido, a metà strada fra la puntata di un cartone animato per neonati problematici e la propaganda sul tappetino di casa dei testimoni di Geova.

Davvero mi è difficile comprendere come mai i bambini vengano trattati come degli idioti e soprattutto come mai ci si stupisca poi di alcune patologie legate all’apprendimento che derivano anche da questo trattamento.

Direte, “Ma vacci tu a fare catechismo, brutta stronza. Vacci tu ad insegnarlo!”
E in che modo? Non ho studiato le religioni del mondo, non sono un biblista né un educatore dell’infanzia. Ed è questa l’ammissione che manca ai catechisti, oltre a quella del “sono noioso come una vecchia calza abbandonata”.

Il mio di catechismo fu portato avanti proprio da una vecchia calza abbandonata, Nicoletta: grande volontà, grande affetto per i bimbi, grande impresa riuscire ad arrivare a fine lezione svegli e con la salute mentale conservata. Oggi, per Nicoletta sarebbe stato un problema perché aveva una dentatura simile a certi antri delle grotte di Postumia che le impediva di parlare senza rilasciare cerbottane di saliva, e avrebbe dovuto cambiare mascherina ogni venti minuti; le volevamo bene ma il suo catechismo tirava fuori il peggio di noi perché, ripeto, i bambini non li puoi trattare da idioti, anche quando lo sono, per cui ci si picchiava, si rubava dagli armadi della sagrestia e si facevano, con metodo, tutte le cose che Gesù disprezza.

Il giorno fatidico

Nonostante ciò, arrivò il giorno della Prima Comunione poiché purtroppo, al catechismo non si viene bocciati. Eravamo una trentina di bambini suddivisi secondo lo stile di abbigliamento scelto per l’occasione: in prima fila, tutti i poveri maschietti a cui era stato buttato addosso un sacco da crociato, non so se esista ancora: in pratica è  l’uniforme (che sarebbe giusto indossare per un evento del genere, peraltro), che consigliavano di indossare fin dal primo giorno di catechismo, un saio bianco con una gigantesca croce rossa ed un grosso cero fra le mani dello sfortunato, che regalava l’impressione che il bimbo stesse andando al rogo.

Subito dopo, le damine: una categoria di bambine di cui si poteva già intravedere lo scemo destino che le avrebbe attese. Le damine e le loro madri soffrono di quel particolare disordine che le porta a confondere il giorno di un’occasione pubblica qualunque come un matrimonio reale, nella Turchia dell’anno Mille. Le damine avevano bisogno di mantenere una distanza con gli altri bambini di almeno due metri altrimenti il bordo del loro vestito dai quattrocento sbuffi sarebbe diventato presto lercio come il  battiscopa del cesso di una stazione ferroviaria. Personalmente godevo di questa distanza e la attendevo dal primo giorno di catechismo.

Alcune damine, nel giorno della mia Comunione arrivarono coi guanti di pizzo e l’ombrellino e nessuno disse niente. Dissero molto, invece quando arrivai io, col mio vestito da giovane suora in ferie, sulle Alpi. Mia madre era persuasa che quel giorno dovesse essere il tripudio della povertà ed io la sua paladina: la principessa pezzente.

Mi fece fare un vestito composto da quattro pezzi di lino bianco del cazzo, con sette fiorellini secchi, crocifissi più che ricamati, in fondo al merlo di una gonna sotto al ginocchio che avrebbe fatto schifo a Santa Maria Goretti.

Quando passai, subito dopo le damine, l’effetto sul pubblico dei genitori fu sconcertato ma disomogeneo: da un lato c’erano i genitori dei bimbi col sacco da crociato che sussurrarono, “Ecco come ci si veste ad una celebrazione mistica, perdio”, dall’altro, i genitori delle damine mi scambiarono per una chierichetta, messa lì dal prete per aiutare i comunicandi ed un paio di mamme mi chiesero di poter tenere l’ombrellino o lo strascico alle figlie mentre prendevano l’ostia.

Una volta a casa, al mio ricevimento monastico, gli ospiti portarono gli ori in dono ma vennero immediatamente confiscati per “quando sarai grande e sarai in grado di non perderli”, mentre io, poveretta in tutti i sensi, immaginavo i banchetti nelle altre case, coi carretti siciliani carichi di marzapane che entravano nei giardini, trainati da cavalli bianchi imbizzarriti, fuochi d’artificio che manco ai matrimoni dei figli dei boss, e cascate di gemme e diamanti sulle crinoline delle piccole stronze che si facevano baciare i guantini dai nonni.

A distanza di anni però, è proprio vero, si può maturare. Questa iniziazione alla povertà mi ha garantito le uniche, sparute virtù che ancora mi restano, assieme all’insegnamento universale che il mondo si divida in gente che non entrerà mai più in una chiesa perché si ricorderà di quel giorno che gli hanno messo addosso un merdoso sacco di iuta, in donne che cercheranno di farsi entrare un vestito di pizzo discutibile per lenire, dal vicino di casa, il dolore ancestrale di aver sposato uno che segue il calcio con un trasporto affettivo mai avuto nel matrimonio, e in quelli che non si ricordano dove cazzo siano finite le catenine d’oro della Prima Comunione per poterle fondere e pagarci l’iva.

E dopo accurate ricerche sono giunta anche alla conclusione che l’unico libro che vi posso consigliare, per avvicinarvi un pochino all’argomento è La famiglia adolescente di Massimo Ammaniti.

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