Perché un personaggio pubblico deve raccontare la sua omosessualità? Conversazione con Antonello Dose.

Ed eccoci qui a ficcare il naso nei tuoi fatti privati, che cosa bizzarra, metterci a parlare del fatto che ti piacciono gli uomini, eppure: è ancora maledettamente necessario. Quando hai fatto coming out, è stato un atto di consapevolezza politica o solo di liberazione personale?
È stato un gesto politico fare coming out. Come è stato un gesto politico parlare del mio AIDS. L’ho fatto nel libro “La rivoluzione del coniglio”, mentre ai miei genitori e a Marco (n.d.r. Presta, l’altro conduttore della fortunatissima trasmissione radiofonica Il ruggito del coniglio) ne ho parlato solo qualche giorno prima che uscisse il libro. Avevo sempre rimandato, perché cose così grandi come l’AIDS preferisci circoscriverle nella tua mente e non doverle vedere continuamente riflesse nello sguardo degli altri.
È stato un gesto politico anche quello di sposare il mio compagno e di parlarne in trasmissione.
Testimoniando la normalità di tutto questo, spero di incoraggiare le giovani generazioni a non soffrire di quella negazione, quella mutilazione della vita che io ho accettato per troppo tempo.

Antonello Dose e il coming out

Quanto tempo ti è servito per fare coming out?
È stato un processo molto lento. Quand’ero ragazzo, 40 anni fa, l’omosessualità si teneva nascosta. Ci ho messo 10 anni per dirlo a me stesso, e ho fatto sesso per la prima volta a 25 anni. Ne ho messi altri 10 per dirlo in famiglia e agli amici più vicini. La tua mente si abitua a una continua menzogna, ad essere tanti personaggi diversi, a controllarti, a temere che “si veda”. Infine, ho impiegato altri 10 anni per dirlo al resto del mondo. Praticamente è passata così metà della mia vita.

La prima volta che ho fatto sesso avevo già 25 anni.

“Il Ruggito del coniglio”, condotto su Rai Radio2 insieme a Marco Presta, è alla sua trentesima stagione

Sei un personaggio pubblico, esposto allo sguardo di tutti, di fatto diventato un testimonial: dopo il coming out, hai mai temuto momenti difficili nel colloquio con gli spettatori?  
Con il nostro pubblico c’è un rapporto affettivo consolidato negli anni. E sento che qualsiasi attacco venisse dal di fuori, il nostro pubblico mi difenderebbe.
Ma non vorrei definirmi un testimonial, perché poi, di cosa? Dell’omosessualità, del buddismo, dell’Aids, un testimonial della risata? Io sono solo un cittadino che sente di dover dare il proprio contributo, di doversi assumere la responsabilità dei tempi in cui vive. Piuttosto, abbiamo un grosso debito di gratitudine verso persone come Massimo Consoli, Pasolini, Mieli, pionieri della testimonianza quando ancora si finiva per scegliere matrimoni di facciata.

Riesci a ridere del bullismo omofobico?
Beh, naturalmente da ragazzo potevo riderne poco, mi sentivo giudicato e continuamente sotto attacco. Andavo al cinema – era il tempo delle commedie all’italiana – e vedevo il gay mostrato come una macchietta, oggetto di derisione. L’adolescente che comincia a fare i conti con la propria omosessualità ha oggi una vita un po’ più facile di quella che era ai miei tempi.

Sei stato nominato Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana e sei stato ricevuto in udienza da papa Francesco insieme al tuo consorte: quale delle due cose è, ai tuoi occhi, più “scandalosa”?
Certamente quella dell’udienza papale è il fatto più forte, anche alla luce delle svolte della Chiesa in questi anni. Ma entrambe le cose le vedo come una sorta di protezione sul mio percorso, tipo: guarda che stai andando bene…

Il rapporto con il cattolicesimo

So che ricordi con affetto e stima il cattolicesimo sincero dei tuoi genitori. Quanto cattolicesimo è ancora vivo nella tua cultura, nei modi, nell’ironia, del tuo senso di responsabilità verso il prossimo?
Del cattolicesimo della mia educazione mi è rimasto il senso del sacro, della sacralità di ogni essere umano.

Hai studiato recitazione con Eugenio Barba e recitato a teatro con Luca Ronconi e al cinema con Marco Bellocchio, prima di affiancare come autore Enrico Vaime e poi dare vita con Presta a una splendida carriera radiofonica. La messa in scena alla fine non più del corpo, ma della voce, cosa ha cambiato?
Per me lo strumento della voce senza l’esposizione del corpo è stata una grande scoperta. La voce compie il lavoro del Budda, si dice. Non è solo la parola ma anche l’intenzione, la modulazione del suono che arriva dritta al cuore prima ancora di passare attraverso i sensi.

Cosa pensi di quei personaggi pubblici – politici, cantanti, attori – che negano la loro omosessualità?
Vivere negando se stessi provoca alterazioni anche della salute fisica, non solo psichica. Quando ti dichiari per quello che sei, smetti finalmente di sentirti in disarmonia con l’ambiente, diventi consapevole del tuo valore e crei valore in maniera oggettiva: allora gli altri sentono la tua forza, si inchinano e ti rispettano.
Ma anche affrontare il problema dell’identità crea molta sofferenza. Non ho mai conosciuto nessuno per cui dichiarare la propria omosessualità sia stato un percorso facile. Per cui non giudico e non forzo nessuno.

In Italia, fra le sigle LGBTQ+ ci sono spesso litigi e una corsa al rendiconto personale

Vorrei chiarire piuttosto cosa vuol dire per me fare attivismo. Io sono un comune cittadino che cerca di rendere migliore la vita del suo vicino. È nella relazione personale che si compiono i veri passi avanti.
Invece in Italia, nell’ambito delle sigle LGBTQ+, ci sono spesso litigi, una gara a coltivare solo il proprio orticello, la corsa allo sponsor e al rendiconto personale. Atteggiamenti molto lontani, ahimé, da un autentico impegno civile, dallo sforzo di aiutare le giovani generazioni come dovrebbe essere.

(foto autorizzate da Antonello Dose)

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