L’idea che siamo controllati dall’apparato digitale di cui ci serviamo, l’idea di essere servi dei servizi offerti a buon mercato col fine di raggirarci è molto diffusa. Si va da un sano atteggiamento sospettoso fino ai deliri complottisti del Nuovo ordine mondiale tecnologico. A dispetto del titolo che potrebbe solleticare fantasie foucaultiane e pseudo-anarchiche sul Potere, il testo di Soshana Zuboff, Capitalismo della sorveglianza, affronta soprattutto le logiche di profitto che stanno alla base della nuova Digital Economy. Il problema non è il mezzo ma il fine, non lo strumento tecnologico ma il modo di produzione che se ne avvantaggia: il capitalismo.

Capitalismo digitale, la ricerca di Zuboff

In una bella intervista all’autrice viene mostrato l’aspetto più interessante della sua ricerca. Il concetto di surplus comportamentale è fondamentale: i dati che finiscono negli algoritmi e nei prodotti venduti alle aziende da Google e Facebook non sono quelli che forniamo più o meno spontaneamente ma gli scarti, tutte le interazioni di cui non ci avvediamo (dagli errori nella digitazione a certe ricorrenze negli spostamenti), dati per noi irrilevanti ma che diventano significativi solo per il loro immenso valore statistico quando il machine learning le trasforma in informazioni predittive.

Il caso dell’azienda che ha saputo di una gravidanza prima che la madre lo rivelasse al padre grazie all’acquisto di una certa tipologia di shampoo è solo l’aspetto più vistoso e sensazionalistico del problema. Appropriandosi, infatti, nel mostruoso vuoto legale che c’è, di questo surplus informazionale i giganti del digitale possono offrire previsioni sui comportamenti di gruppi specifici, calcolando addirittura i bisogni che aspettano di essere soddisfatti in un certo momento.

La possibilità di accrescere il proprio potere di predizione e modificazione del nostro comportamento attraverso app apparentemente innocue come Pokémon Go va oltre l’immaginazione. L’essenziale avviene alle nostre spalle, non solo e non tanto perché avviene di nascosto (il che è comunque vero) ma perché deriva dalla tipicità delle nostre azioni e reazioni, qualcosa che non possiamo controllare perché eccede la nostra auto-percezione come individui, unici, irripetibili.

Il dissolvimento di questa illusione romantica è un aspetto in realtà progressivo del capitalismo digitale. Quando nell’intervista si vedono gli amish spostarsi a cavallo (a proposito di lato progressivo della tecnologia: molta tecnologia nel momento in cui asserve al tempo stesso libera, per es. gli animali dal giogo del lavoro per l’umano…) o tenere cellulari senza tastiera per digitare messaggi chiusi in un cassetto, siamo di fronte all’esasperazione di questo mito della vita contrapposta alla techne. Come non esiste vita vera nella falsa (Adorno) non esiste vita pura che non sia in qualche modo avviluppata dalla tela della strumentalità: ammesso e non concesso che ciò sia vero per gli altri animali, sicuramente l’essere umano non vive nell’immediatezza di un essere puro, incontaminato dalla mediazione strumentale con l’ambiente e con il proprio corpo.

La soluzione non può essere individuale

Fortunatamente Zuboff suggerisce che la soluzione non può essere individuale – l’opzione del chiamarsi fuori per ristabilire una purezza della vita pre-digitale – quanto piuttosto affrontare politicamente tale lotta per ristabilire la proprietà e l’interesse collettivi di questi processi.

L’intervista

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