L’indagine che sto conducendo, tra operatori e operatrici culturali di Milano, definisce una mappa di pensiero che traccia le scelte e le linee guida culturali dei più importanti luoghi di cultura milanesi. In questa intervista ci sono i pensieri e le parole di Donato Nubile, Direttore Artistico di Campo Teatrale, una bella realtà del circuito produttivo off di Milano, pur vantando co-produzioni con enti istituzionali.

Supporta giovani compagnie, talenti emergenti (e non solo) tra attori/trici, registi/e, autori/trici che mettono la loro creatività al servizio di storie nelle quali i temi di racconto fanno da sfondo a una produzione viva e alla costante ricerca del nuovo.

Cosa significa per una comunità non poter avere un servizio pubblico come il teatro?
Mi piacerebbe poter rispondere che senza il teatro la comunità perde sé stessa, perde la possibilità di guardarsi allo specchio, di interrogarsi sul senso stesso di essere comunità. Ma la verità è che questa è una risposta che serve a consolare chi il teatro lo fa. Prima della pandemia meno del 20% degli italiani dai 6 anni in su andava a teatro almeno una volta l’anno. E tra questi c’eravamo anche io e te, a volte non pagando il biglietto… La consapevolezza di questa forma di irrilevanza dovrebbe costituire una premessa di qualsiasi discorso sulle politiche culturali e, forse, sul Teatro.

Cosa manca in Italia affinché la cultura venga considerata un bene primario di ogni cittadino/a?
Occorre renderla pienamente e diffusamente accessibile: condizioni economiche e famigliari, età e luogo di residenza condizionano ancora fortemente la possibilità di beneficiare di una adeguata offerta culturale, e la disuguaglianza nelle possibilità di accesso alla cultura ne determina altre, innescando una spirale di impoverimento materiale e spirituale. Poi c’è il tema della dignità del lavoro dell’artista, e del riconoscimento del suo ruolo sociale. Il confine tra amatorialità e professionalità non è sempre messo a fuoco in maniera chiara, non solo dal pubblico ma a volte persino dalle istituzioni, scuola compresa. Come si può dare importanza al risultato di una attività che ancora si fatica a percepire come un lavoro? 

Puoi dire chi è un/a artista del passato che credi debbano conoscere le giovani generazioni di professionisti/e del Teatro?… E perchè? 
Non sono più giovane, ma non sono nemmeno così anziano da suggerire il nome di un artista che io ho avuto la fortuna di incontrare e che non è più in circolazione. Fermandomi al mestiere dell’attore e abbracciando anche il cinema, ai ventenni di oggi consiglierei di studiare artisti come Alberto Sordi, Monica Vitti, Marcello Mastroianni, Anna Magnani, Vittorio Gassman, Sophia Loren, Nino Manfredi, Franca Valeri. Artisti immensi, versatili, profondamente connessi con il proprio tempo eppure capaci di indossare caratteri universali.

Cosa credi che bisognerebbe fare per far tornare il pubblico in sala?
Fare molta attenzione a come si porta il proprio ego sul palco, evitare che il personale bisogno di espressione sia la molla principale del proprio lavoro artistico. Da questo punto di vista, la parola “urgenza” associata alla motivazione artistica mi ha sempre creato un po’ di perplessità. Il teatro è comunicazione, comunione, pluralità.

Sul fronte del pubblico, occorrerebbe una sorta di Piano Marshall per la diffusione della pratica artistica nelle scuole e nelle aziende. La cui conduzione sia affidata a professionisti, non al docente o al responsabile delle risorse umane dotati di una certa sensibilità artistica, e nemmeno a qualche loro conoscente.

Cosa vorresti lasciare ai tuoi nipoti, per il loro futuro?
Ho 47 anni e un figlio di 6: spero di conoscerlo, mio nipote…

Cosa vorresti vedere a teatro adesso, dopo la pandemia?
Spettacoli che aiutino a mettere in discussione il nostro presente, e forniscano frammenti per maturare una visione del futuro.

Quand’è l’ultima volta che ti sei commosso?
Ascoltando mio figlio che, nell’altra stanza, era impegnato nella didattica a distanza. In occasione della Giornata della Memoria, i suoi maestri stavano affrontando il tema delle leggi razziali: anche se in modo mediato, guidato, mio figlio si stava confrontando forse per la prima volta con il Male, e lo stava facendo senza di me.

Cosa significa per Donato Nubile lottare per il bene comune?
Avere coscienza dei propri talenti e provare ad esprimerli al meglio. Praticare il rispetto e la gentilezza. Accettare senza frustrazione i propri limiti, tenere a bada l’egoismo. Sono azioni molto difficili, ma per compierle non serve essere eroi.

Questo tempo di chiusura ci ha fatto capire che del teatro se ne può fare a meno! Quanto è vera questa affermazione?
È verissima. Eppure, in forme differenti, il teatro è e resterà una costante della storia dell’umanità.

Quand’è che hai sorriso l’ultima volta?
Ieri. Prima di uscire e lasciare me e mio figlio in casa, mia moglie stava ricapitolando le cose da fare: finire i compiti, riordinare la stanza e fare la doccia. Avevamo già deciso di giocare ai videogiochi appena lei avesse varcato la porta di casa. Ad ogni modo, missione “cose da fare” compiuta. Anzi, quella è stata la penultima. Questa mattina mi sono imbattuto in un frammento di un film di Checco Zalone.

Chi dovrebbero essere le persone che gestiranno i teatri di domani?
Quelle capaci di gioire per la bellezza creata dagli artisti che ospiteranno. E, nel caso dei teatri con importanti finanziamenti pubblici, quelle che si impegneranno a non gestirli anche dopodomani.

Per puntare sui/sulle giovani artisti, ci vuole più incoscienza o più coraggio?
Nessuna delle due: ci vogliono intelligenza e curiosità.

Hai realizzato i sogni che ti avevi da ragazzo. E i sogni che hai adesso?
Non smettere di sognare.

Cosa pensa Donato Nubile quando è seduto in sala, poco prima di vedere uno spettacolo? Cerco di non pensare.

Per fare il lavoro che hai fatto in questi anni, hai avuto bisogno di più amore o di coraggio?
A me sembra di aver seguito il mio istinto e di aver avuto la capacità, il più delle volte, di prendere il meglio dalle persone che lavoravano con me e di essere riuscito a guadagnare la loro fiducia.

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